Nell’intimità della lingua, la poesia ucraina come bunker, asilo, rifugio, speranza?
di ariel rosé
Immagine di copertina: A poster for “Our Fire is Stronger Than Your Bombs,” a co-curated exhibit of Ukrainian graphic artists’ response to war hosted by The New Hampshire Institute of Politics at St. Anselm College in Manchester, N.H. The May 1, 2023, program to marks the one-year anniversary of the start of the full-scale Russian invasion of Ukraine, fonte.
“Che cosa resterà?”, chiese ad Hannah Arendt il giornalista tedesco Günter Gaus in un programma televisivo del 1964. La trascrizione della loro conversazione (a 36:41) è nota in inglese e in questa lingua viene più comunemente citata la famosa risposta della Arendt: “What remains? Language remains”. In realtà, la Arendt affermò: “Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache”. Muttersprache, ossia mother tongue, oppure, secondo la patriarcale versione polacca, lingua patria. Lingua madre, dicono gli italiani. In ucraino si dice рідна мова, letteralmente lingua nativa. Una lingua che non scegliamo.
Ma perché mi viene in mente la Arendt e quell’intervista? Dall’escalation della guerra vado in giro per l’Europa a raccogliere le testimonianze dei poeti ucraini sparsi nei vari Paesi. Nell’appartamento parigino in cui ho invitato la poeta, scrittrice e musicista Ella Yevtushenko e la scrittrice e poeta Anna Maligon, trovo il libro di poesie della Arendt in traduzione francese Heureux celui qui n’a pas de patrie, citazione pressoché fedele di Nietzsche, come sembrava alla pensatrice-immigrata. Nietzsche però aveva in mente qualcosa di completamente diverso: “Wohl dem, der eine Heimat hat” (“Beato colui che ha una casa”). Questo quasi piccolo errore salvò la Arendt. Oppure fu fonte di ironia liberatoria per chi come lei aveva trovato miglior rifugio nel pensiero prima di Martin Heidegger, poi di Karl Jaspers. Dopo l’emigrazione francese la filosofa si ritrovò a New York e fino alla fine dei suoi giorni parlò in inglese con un forte accento tedesco. Nonostante tutto, la sua casa rimase per sempre la lingua tedesca.
Un simile destino toccò ai poeti ebrei Paul Celan e Rose Ausländer. Entrambi nacquero a Černivci (oggi città ucraina). Al tempo Černivci faceva parte dell’impero austro-ungarico – quella grande colubrina multinazionale che non aveva una solo Muttersprache – per poi passare in mani rumene, successivamente sovietiche… Rose Ausländer, come la Arendt, si ritrovò a New York. Scriveva anche in lingua inglese. Esiste una certa parentela tra Rose Ausländer e la poetessa ucraina Iryna Vikyrčak, che su di lei sta scrivendo il dottorato. Vedo sullo schermo il suo viso olivastro, gli scuri capelli raccolti e gli occhi marroni. Mi descrive il suo background linguistico seduta in poltrona in una camera con una tenda rosso-scura enorme, il cui scopo è probabilmente quello di bloccare l’insistente sole di Calcutta. Non riesce però a moderare l’aria soffocante e impura, probabile genesi della tosse di Iryna. Mi racconta che i suoi nonni paterni provenivano da una piccola località al confine con la Romania e che, sebbene tra di loro parlassero in rumeno, decisero di non tramandare oltre questa lingua. A suo padre infatti insegnarono il russo, che percepivano come più prestigioso. Questi però non l’ha tramandato alla figlia. È stata dunque una staffetta à rebours. Iryna è cresciuta in una casa in cui si parlava in ucraino. Suo padre aveva una doppia identità. In lingua russa era Aleksandr, in lingua ucraina Oleksandr.
Zališčyky, la cittadina da cui viene Iryna, ha in compenso legami molto forti con la Polonia. Lo scrittore e politico nonché massone polacco-ucraino Stanisław Stempowski vi trascorreva l’estate insieme alla romanziera, saggista, drammaturga e traduttrice polacca Maria Dąbrowska. Era la SPA polacca. “Da Gdynia partiva per Zališčyky un treno diretto luxtorpeda”, racconta Iryna. Mentre io mi avvolgo sempre di più nella coperta, seduta in poltrona nella villa romana non riscaldata della mia residenza per scrittori, Iryna indossa solo un top scuro senza spalline e sorseggia ogni momento dell’acqua. Nonostante da piccola fosse circondata dalla lingua ucraina, come io ora dalla coperta, e avesse frequentato la scuola ucraina, l’aria fredda della lingua russa era sempre presente. Al campo estivo i bambini che parlavano ucraino venivano sbeffeggiati da quelli russofoni. All’età di sedici anni Iryna è partita per gli Stati Uniti. Al suo ritorno si è accorta che il russo aveva dominato la televisione, come una nebbia insinuatasi silenziosamente nell’etere. La madre – che difendeva l’identità ucraina e a ogni trovata russa reagiva retoricamente: “Ma a che ci serve? Da Mosca?” – ha mandato la figlia a seguire lezioni supplementari di russo, dicendo: “Ti servirà”. Iryna comunica prevalentemente in ucraino, polacco e inglese. A cosa doveva servirle il russo? Iryna si è posta però un altro quesito: “Cosa può fare la poesia per me?”, invece di chiedersi, come si fa di solito: “Cosa posso fare io per la poesia?”, quasi volesse rovesciare uno dei ponti sul Tevere e metterselo sulla schiena. La poesia diventa un bunker, un asilo, un rifugio. La possibilità di esprimere il dolore. Non in lingua ucraina, ma in lingua inglese. Iryna voleva parlare dei tragici eventi della guerra rivolgendosi al mondo in modo diretto, per questo ha scritto in inglese la poesia da me scelta per la serata di Varsavia dedicata ai poeti ucraini.
“Per fortuna a Mariupol’ non ho nessuno /
per fortuna /
altrimenti il cuore non reggerebbe /
è troppo piccolo /
per contenere Mariupol’”.
In seguito però, dopo aver letto al Festival di Atene la stessa poesia in ucraino, commuovendosi fino alle lacrime, ha capito che l’inglese era solo un tampone. “La lingua madre è più vicina al cuore”, Iryna conclude così la nostra conversazione.
Iryna Vikyrčak, foto By Nataliia Koval (Nata Koval), fonte.
Mi scollego, vado a correre. Corro lungo il Tevere, che in italiano si può dire con una sola parola: lungotevere. E conto i ponti. Quinto, sesto. Dietro il settimo sono appesi al muro dei pannelli con le poesie di diversi poeti che hanno reso omaggio alla città eterna (almeno per ora – eterna). Da sotto i graffiti di una lingua distinta si vede appena la poesia in tedesco di Rose Ausländer “Rom” (“Roma”), tratta dal volume Italien mein immerland. Il graffitista ha risparmiato la traduzione italiana di Nora Moll: “Sette profili / abbandonati / ai secoli / il Tevere / cinta gialla / intorno a Castel Sant’Angelo / dove veglia / l’angelo d’oro / La carne marmorea di Bernini / conosce i tempi / la petrificata vivacità di Roma”. Come si sentiva la poetessa ebrea di Černivci, autrice del volume Denn wo ist Heimat?, sul Tevere? Mi sovvengono le parole di Iryna della nostra recente conversazione: “Sai, per la prima volta in vita mia, qui a Calcutta mi sento a casa”. Ma forse sono il senso di sicurezza e il figlio Alexandre di sedici mesi ad essere la forza di gravità?
Immagine: Roma, lungotevere, foto di ariel rosé
Torno alla mia collina. Attraverso il Giardino degli Aranci, dove mi raggiungono frasi in diverse lingue pronunciate dai turisti. “A las cinco”. “Nie tamtędy”. “Vorrei sedermi lì”. “Ost til lunsj”. “I wanted to get to Saint Peter’s, you know, but it was full of people, there was a queue all around the square”. In cosa consiste l’intimità della lingua? Gli alberi hanno corone piene di fiori e vi compaiono, a mo’ di gioielli, solo delle arance amare. Varco l’uscio della nostra residenza per scrittori scandinavi, dove io sono un poeta norvegese. Mi accoglie in cucina il compositore finlandese Eero Hämeenniemi, che mi ricorda come un tempo lo svedese avesse preso il sopravvento sul finlandese. Pochi sanno che l’ex premier della Finlandia parla un raro dialetto delle parti di Tampere, ma Eero lo sa, poiché parla lo stesso dialetto. Come lo scrittore austriaco Jean Améry (Hans Chaim Mayer), di cui dopo mi parlerà la scrittrice Sofija Andruchovyč. Sofija ha i capelli corti e la frangia laterale lunga, è seduta sul letto della camera di sua figlia a Kiev, con le pareti azzurre e il poster di Fantastic Mr. Fox. Quando nella cella belga in cui era prigioniero Améry, entrò un ufficiale parlante il suo stesso dialetto – un modesto, quasi microscopico dialetto – lo scrittore ebreo-austriaco si sentì per un attimo a casa, quasi avesse incontrato un familiare con cui condivideva la stessa lingua intima. Si trattava però di un nemico, uno di quelli che torturavano lo scrittore, il quale – come ha scritto Adam Zagajewski – “odiava la violenza fisica”. E adesso arrivano i soldati russi parlanti la stessa lingua russa di molti abitanti dell’Ucraina orientale, per “liberarli”, uccidendoli.
Per Sofija l’ucraino è la lingua intima, “il mio territorio, quello in cui mi sento pienamente me stessa”, aggiunge. Secondo i filosofi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari il territorio è una struttura semiotica, “un regime di segni”. Quindi la lingua è uno dei più efficaci strumenti atti a costituire un territorio. Pertanto, la lingua gioca un ruolo centrale nella nascita della politica di oggettivazione degli altri. Lo scrittore, saggista e aforista bulgaro-britannico, di lingua tedesca, Elias Canetti vedeva nel linguaggio uno strumento di potere e subordinazione per il tramite dell’imposizione di ordini. Molto spesso si tratta di un ordine di fuga, fuga dalla morte. Dal momento che chi detiene il potere ha la possibilità di privare l’altro della vita. Questo per Canetti non significa l’essenza del linguaggio (d’altronde lui stesso usava questo strumento per uno scopo completamente diverso), ma richiama l’attenzione sul potere del comando e sul rapporto di potere che giace sopito nel linguaggio. L’unica via d’uscita è la de-individualizzazione o la deterritorializzazione, come volevano (Michel) Foucault, Deleuze e Guattari. Una sorta di nomadismo linguistico. Jurij Zavadskij, poeta di Ternopil’, vede la situazione in modo simile. Scorge la dipendenza del potere basato sulla lingua e il trauma ad esso connesso, ma allo stesso tempo immagina la creazione di una federazione in Ucraina in cui le lingue, non solo il russo e l’ucraino, possano coesistere.
Neanche il background linguistico di Sofija è omogeneo, anche se si identifica più fortemente con l’ucraino. La sua nonna materna era arrivata dalla Russia in Ucraina con il marito. Non ha mai imparato l’ucraino. Adesso ha novantatré anni e la sua conoscenza della lingua ucraina lascia ancora a desiderare, non sa pronunciare correttamente il termine-shibboleth palyanytsa (паляниця), che contiene in sé il concetto di pane dalla scorza bruciata (пали́ти, palyty, significa “bruciare” o “bruciacchiare”). Sofija aveva cinque anni quando andò a trovare i nonni a Černivci (Чернігів) e, una volta tornata a casa, parlava in russo. “Perché parli in russo?”, le chiese il nonno paterno. “Tu sei ucraina!”. In quel momento Sofija comprese quanto la lingua fosse un elemento identificativo. Una situazione speculare è avvenuta tra il marito e la figlia di sette anni, che frequenta la scuola ucraina. Anche se le lezioni sono condotte in ucraino, i bambini durante l’intervallo parlano in russo, lingua che spesso portano fuori dal territorio scolastico. “Perché parli in russo?”, le chiede il marito di Sofija. “Ti vergogni dell’ucraino?”. Nonostante l’acquisizione della coscienza linguistica la bambina non è stata in grado di chiamare per nome quello che aveva visto sulle foto di Bucza. “Descrivimi quello che hai visto”, le ha chiesto Sofija per liberarla dal trauma della testimonianza. “È troppo orribile per dargli un nome, è la cosa peggiore che io abbia mai visto”. Per alcune esperienze non basta nessuna lingua…
Foto: Sofija Andruchovyč, fonte.
“La colonizzazione è stata per molti aspetti una coproduzione di colonizzatori e colonizzati”, scrive il sudafricano Achille Mbembe nel suo ultimo libro Out of the Dark Night. Che cosa intende? L’una e l’altra parte, pur da posizioni diverse, hanno costruito insieme un solo passato. “Ma possedere un passato comune non significa necessariamente condividerlo”. Nel caso dell’Ucraina il colonizzatore era l’Unione Sovietica (ancor prima la Russia zarista). All’età di quindici anni Jurij Zavadskij capì che la letteratura russa era la letteratura dell’occupante e la rifiutò. “A scuola ci assillavano con Puškin”, mi dice per telefono dalla città nativa di Ternopil’. Io mi trovavo invece a Berlino e ogni giorno oltrepassavo la parte orientale e occidentale in passato separate dal muro. Prima che l’Ucraina ottenesse l’indipendenza negli anni Novanta, “vivevo in uno Stato non troppo autonomo”, confessa Jurij; e aggiunge: “Gli ucraini si sentivano come gli indiani in una riserva”. Il paragone ha probabilmente la sua origine nelle sue letture. Sul ripiano della libreria ha libri perlopiù in ucraino, alcuni anche in polacco, tra cui uno di Thor Heyerdahl, etnografo ed esploratore norvegese, che nel 1947 raggiunse la Polinesia con la zattera Kon-Tiki. Qualche volta prendevo il traghetto che passa accanto al museo Kon-Tiki, tra la mia ex-casa sulla penisola di Nesodden e Oslo, e mi interrogavo sulla necessità di ricostruire l’esistenza altrui: il tentativo di cogliere la vita degli altri è soltanto una classificazione, un avvicinamento? Una denominazione per il nostro o il loro bisogno? Siamo realmente in grado di toccare i sentimenti e le esperienze degli altri? Tra la memoria trascritta in lingua russa e quella trascritta in lingua ucraina, Jurij ha scelto le letture ucraine. Aveva un debole per Majakovskij, fino a quando l’insegnante a scuola non gli ha fatto scoprire il futurismo ucraino.
Rispetto al russo gli è sempre stato più vicino il polacco. Era il 1998 quando poté scegliere la seconda lingua di studio. “Quale hai scelto?”, gli chiese allora la nonna, al che lui rispose: “il polacco”. “E perché?”, replicò la nonna. Il russo era la lingua ufficiale, la lingua della televisione. Bisognava conoscere il russo. Conveniva conoscerlo. Jurij mi racconta del dizionario russo-ucraino che circolava per le case, a dimostrare che le due lingue sono talmente simili che in realtà non valeva la pena usare l’ucraino. O ancor meglio l’ucraino russificato e, al posto di “dijakuj”, dire “spasibi”. “Era difficile preservare la purezza della lingua”, dice Jurij, e mi figuro la lingua come un sentiero di pietre che attraversa un giardino, proprio come quello della mia residenza, da cui ogni giorno il giardiniere spazza via le foglie secche e i rami spinosi, in cui una volta sono inciampato tornando a casa.
Foto Yury Zavadsky, fonte.
Lo storico ucraino Sergij Plochij vede la mosaicità dell’eredità dello Stato ucraino, che fin dal principio era di confine. Nell’ambito di questi confini si sono ritrovati territori ottomani, polacchi e russi. “L’Ucraina contemporanea abbraccia terre che erano ben oltre la portata dell’antica Rus’”, dice Timothy Snyder iniziando il suo undicesimo intervento sulla formazione dell’identità ucraina, “si trovava infatti nel raggio della potenza dell’antica Grecia, di Bisanzio, dell’Impero Ottomano e, cosa più importante, dei Tatari di Crimea”. Le frontiere però non erano stabili, si spostavano come vipere. E così, ad esempio, la famiglia di Julja Musakovskaja, poetessa e traduttrice ucraina, fino alla seconda guerra mondiale viveva in Polonia, per poi “scambiarsi di posto” con la mia famiglia, che viveva a Leopoli e dintorni. Fino alla guerra la famiglia di Julia parlava in polacco. Dopo il reinsediamento nella regione di Ternopil’ ha iniziato a parlare in ucraino “e ovviamente in russo”, come tiene a sottolineare. Il nonno materno veniva da Baku e giunse a Leopoli insieme all’Armata Rossa. Qui conobbe la donna che sarebbe poi diventata la nonna di Julia, e vi rimase. In casa parlavano in russo, ma Julia aggiunge che il nonno conosceva benissimo l’ucraino. Julia ha imparato contemporaneamente tre lingue: l’ucraino, il russo e il polacco, e passava fluentemente da una lingua all’altra, come se fossero tre camere. Rimpiange solo che il nonno non le abbia insegnato l’armeno (sosteneva che non le sarebbe servito a nulla). La letteratura russa era presente nella loro casa, ma Julia mi racconta di non avervi mai stretto un vero legame, come se fosse la persona con cui avrebbe dovuto legarsi per tutta la vita ma con cui non è scattata la scintilla. A Dostojevskij e all’Achmatova Julia preferiva Pavlo Tyčyna e Lesja Ukraïnka. Alcune poesie in lingua russa che giunsero a lei prima, ancora a scuola, le sembravano pallide, artificiali. In ucraino sono vere, dice.
Julia Musakovska, foto di Nastya Telikova, fonte.
Diversamente è andata per la poeta Iryna Šuvalova, che si collega con me dalla Cina, più precisamente dall’ufficio della scuola in cui aiuta i liceali che si trovano in situazioni emotive e psicologiche difficili. Sulla parete dietro di lei sono appese cartoline da diverse parti del mondo, alcune dall’Ucraina. Una da Odesa. E la foto di tre mani aperte con dei ravanelli tagliati a metà a forma di cuore. Le mani sono quelle di Iryna, sua madre e sua figlia. Formano un triangolo. La madre di Iryna viene da Sum, così come la nonna, la quale fu prima prigioniera in un campo di lavoro in Germania, poi con l’esercito sovietico in Polonia, imparò il russo, anche se in realtà parlava un misto di ucraino e russo, quello che in Ucraina chiamano suržik. E così Iryna con il nonno parlava in ucraino e con la nonna in suržik. “Come va il tuo suržik?”, ha chiesto ultimamente Iryna alla figlia, che all’asilo ha imparato il russo, perché questo si aspettavano da lei gli altri bambini. Era l’anno 2004 e Iryna definisce il ricordo – trauma. Ma il trauma può essere ricoperto dal sonno, in cui dimentichiamo,
“l’odio nel sonno /
e cresceremo normalmente come l’erba /
ricoprendo la terra /
con il nostro appiccicoso fragile /
superfluo /
amore”
– come scrive nella poesia “vesper”.
A sinistra: Iryna Shuvalova, fonte. A destra: Artur Dron, fonte.
Vorrei chiedere della lingua dell’amore a Artur Dron giovane poeta al fronte, che da sette giorni non risponde al mio messaggio su Facebook. L’amore nella sua poesia:
“dopo la seconda battaglia vomita sotto l’albero. /
A volte l’amore /
chiude gli occhi agli amici. /
Li avvolge in sacchi a pelo /
e li porta via. /
L’amore non si fermerà mai, /
come le profezie, che finiranno, /
come il dono della lingua, che scomparirà, /
come il sapere, che verrà a mancare. /
Quando l’artiglieria tacerà, /
gli amici chiuderanno gli occhi dell’amore. /
Avvolgeranno l’amore con il sacco a pelo /
e lo porteranno via. /
Ci troveremo insieme /
faccia a faccia”.
Mi preoccupo perché continua a non rispondere. Mando un messaggio a sua madre, che mi ha aggiunta su Facebook, ma anche da parte sua nessuna notizia. Sono inquieto. In compenso ricevo un messaggio su Tinder. Vado a un appuntamento con una regista teatrale italiana. Parliamo un po’ in inglese, un po’ in italiano. Come la coppia del nuovo libro di J. M. (John Maxwell) Coetze, un compositore polacco e una fan spagnola parlano in inglese. Coetzee ha pubblicato il libro prima in spagnolo, così da rompere il monopolio globale della lingua inglese. Veronica siede vis a vis a me e manda un messaggio vocale alla sua amica: “ho lasciato il mio brutto orecchino a casa tua”, e mi mostra il segno dell’orecchino sul lobo del suo orecchio sinistro. Forse dovrei dire il buco dell’orecchino nell’orecchio.
L’essere umano è il contenuto principale della lingua, sempre che la sua essenza spirituale e la lingua stessa si incontrino e l’essere umano esprima questa essenza con l’aiuto della lingua. Così affermò Walter Benjamin, il cantore delle possibilità della traduzione spirituale tra le lingue. Il suo collega più giovane, ormai non più tanto giovane, Giorgio Agamben, vede nella lingua la forza del sacro, supposto che la parola sia il giuramento tra noi e Dio. Oggi questo giuramento perde spesso in forza, come nota Agamben. È possibile però che l’intelletto svolga il lavoro grazie al quale le sponde della metafisica e della fisica si uniranno, Styx interfusa (Virgilio, Eineide, Libro 2). Guardo la corrente veloce del Tevere, quando mi arriva un messaggio di Olga Dron: sì, Artur è in posizione.
ariel rosé, fonte.
Ascoltando su Zoom Iya Kiva leggere una poesia sulla guerra
Ieri abbiamo ascoltato su Zoom Iya Kiva
leggere una poesia da Kiev, là dove le berrette
dorate delle chiese ortodosse non si sono nascoste nei rifugi,
abbiamo ascoltato, ognuno nel proprio
appartamento, quasi ognuno, abbiamo ascoltato,
eravamo solo occhi, come se non avessimo
nient’altro, solo occhi, come se volessimo
proteggere Iya con gli occhi, ne assorbivamo
ogni parola, intanto sullo sfondo Babij Jar bruciava,
la memoria però non brucia, confidiamo, la memoria è inossidabile,
la memoria aspetterà come una talpa, ibernata,
tutti volevamo, in mille su Zoom,
in duemila occhi, reggere su Iya
un ombrello d’aria,
scudo del nostro guardare,
quando ha finito di leggere, ho alzato la testa
sul tavolo ad attendermi un libro della biblioteca
La tentation d’exister di Cioran
le colline tenevano Bergen sulle ginocchia,
sono fioriti i primi crocus, tutti
gioivano della primavera.
ariel rosé
ariel rosé – poeta, illustratore, autore di due libri di poesie: Północ Przypowieści (Znak 2019), con illustrazioni sue ; e morze nocą jest mięśniem serca (PIW 2022). Ha ottenuto molti premi e menzioni per i libri di poesie con illustrazioni. Attualmente coordina il progetto Both Sides of the Border Face East con il patrocinio di Marci Shore e il sostegno della Fondation Jan Michalski, nonché del Renaissance Institute. L’edizione di quest’anno è dedicata alla guerra in Ucraina. Di ariel rosé vedi qui e qui.
Traduzioni di Lucia Pascale.
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Grazie a tutti! Per un’Ucraina libera e un mondo libero…