Dalla guerra di Ucraina fratture in Lettonia
di Margherita Carbonaro
Immagine di copertina: Sanders Raudsep, Afterlife is getting ripped apart by aliens. There will be no Heavenly cloud-sofa to chill on… You gonna get f+cked up bro!, Acrylics on canvas, 100 x 120cm, 2022, dettagli.
Continuano le corrispondenze dal Baltico di Margherita Carbonaro, vedi Da Riga, in via dell’Indipendenza ucraina – Un grido urbano, sentimenti misti.
Immagine: Sanders Raudsep, Trickster, Stoneware, 5x45x45cm, 2021, dettaglio.
«Ogni russo, insieme al latte materno, assorbe il culto della guerra», ha scritto sulla sua pagina Facebook il 20 maggio dell’anno scorso Vladislava Romanova, giornalista e direttrice di un’agenzia pubblicitaria a Riga, «e il culto della guerra è così forte da superare qualsiasi altra cosa. I nostri antenati hanno combattuto e riportato la vittoria – urrà! Siamo una nazione potente – urrà! Se avremo la possibilità, lo ripeteremo – urrà! Sono potenti i russi – urrà! Potente nazione – urrà, urrà, urrà!»
Tutto questo Vladislava, di madrelingua russa, l’ha scritto in lettone – il che fa risuonare diversamente l’eco dei tanti “urrà”. Vi aggiunge note di amara ironia e disperazione. Vladislava ha ventinove anni ed è nata a Daugavpils, che con i suoi 105.000 abitanti è la seconda città della Lettonia. Posta a venticinque chilometri dalla frontiera con la Lituania e a trentacinque chilometri da quella bielorussa, Daugavpils ha una popolazione in grande maggioranza russofona.
Qui, a Daugavpils, nacque nel 1903 Mark Rothko. E qui si trova anche il Mark Rothko Art Center, la cui direzione nell’autunno dell’anno scorso è stata costretta dal governo cittadino a rimuovere tre opere del ceramista estone Sanders Raudsep, al quale era dedicata una mostra personale. La censura si è rivolta contro opere che presentano croci, peni e armi. Il mondo culturale lettone ha protestato, ma la municipalità non si è lasciata smuovere. Daugavpils è guidata da una giunta filorussa.
Vladislava Romanova ha girato un documentario su cui da settimane la Lettonia discute. In lettone si intitola: Daugavpils. Iespēju vai nespēju pilsēta?. In russo: Даугавпилс – город возможностей или невозможностей? Tradotto in italiano: Daugavpils. Citta di possibilità o di impossibilità? Dopo l’uscita del documentario, Vladislava Romanova ha ricevuto anche minacce sui social da parte di diverse anime filocremliniane. La questione alla base è semplice, un vecchio interrogativo – posto di frequente già prima del 24 febbraio 2022, ma da allora tanto più attuale – e cioè: se succedesse che… se succedesse quel che si vorrebbe non succedesse mai… e se però succedesse, come reagirebbe Daugavpils? Quanti dei suoi abitanti si mostrerebbero leali alla nazione lettone? Quanti correrebbero a gettarsi fra le braccia del vicino russo? Quanti si lascerebbero “salvare” da lui?
Vladislava Romanova è nata e cresciuta a Daugavpils, in una “bolla russa”, così lei la descrive. In casa si guardavano solo le notizie della televisione russa. La nonna parlava in russo e raccontava di come si stesse bene in Unione Sovietica. Avevi l’impressione, racconta Vlada, che il mondo lettone fosse contro di te; non so perché, non ce n’era nessun motivo, ma era così. Anzi, confessa con imbarazzo in un’intervista con il settimanale «IR»: «Non mi piace dirlo, ma a quell’epoca mi sembrava addirittura che [i lettoni] fossero un popolo più primitivo che viveva accanto a noi». Poi, durante il liceo (russo), avviene un incontro che le cambia la vita e la mente, quello con l’insegnante di lingua e letteratura lettone Inga. La quale racconta la storia del Novecento anche dal punto di vista lettone. La medaglia ha sempre due facce, e non solo quella che ogni 9 maggio invita Vlada e i suoi compagni di scuola a portare fiori al monumento all’Armata Rossa trionfante e a contare le decine di medaglie tintinnanti sulle uniformi degli anziani veterani. Inga racconta la storia della sua famiglia, l’altra faccia del 9 maggio, fatta invece di dolore, distruzione e repressione.
Immagine: Indulis Folkmaņis (Sculptor), Memorial to the Great Patriotic War, Daugavpils, Latvia, 1969.
Se in Lettonia per alcuni (molti?) Daugavpils è una città che tanto varrebbe regalare alla Russia, con il suo documentario Vladislava Romanova vuole invece mostrare come accanto alle voci di quanti si sono formati e sono rimasti sotto il casco della televisione di stato russa e della sua propaganda se ne incontrino anche di diverse, cioè voci critiche, aperte, europee.
Come in Russia, anche in molte famiglie russofone in Lettonia la guerra in Ucraina ha aperto fratture tra le persone e le generazioni. Alla, giovane influencer, si chiede indignata come sia possibile affermare che si stesse bene in Unione Sovietica: «Davvero siete pronti a stare in fila per le uova, a comprare la vodka utilizzando i buoni, a tingervi i capelli con l’inchiostro? Davvero pensate che fosse una bella vita? Nessuna persona normale della nostra generazione», afferma, «vorrebbe tornarci. Una volta in famiglia ho detto che grazie a Dio sono nata nel 1994, dopo l’Unione Sovietica. Mi hanno guardato con degli occhi: cosa dici, stupida?»
Un uomo non più giovane, intervistato per la strada, assicura in effetti con grande convinzione che un tempo, quando questa era Unione Sovietica, la vita era molto più bella e felice, e che meglio di com’era allora non sarà mai più. A me ricorda la scena a cui ho assistito una volta a Mosca, alla metà degli anni Novanta: un tizio davanti al banco della carne e dei salumi di un piccolo supermercato non riesce a decidere cosa vuole. La gente in attesa si spazientisce, la commessa incalza e l’uomo sbotta: «era molto meglio un tempo, quando c’era Brežnev, allora potevi comprare un solo tipo di salsiccia – e non ti girava la testa come adesso. Ah, i beati tempi della monosalsiccia!»
Non rimpiange la monosalsiccia Inna, fondatrice del portale chayka.lv. Piuttosto rimpiange il fatto di non parlare bene lettone e di non essere diventata finora cittadina lettone, ma si ripromette di fare presto le pratiche necessarie. Inna infatti non possiede un passaporto lettone ma un passaporto da “non cittadina”. Gode di tutti i diritti tranne quello di voto alle elezioni nazionali (in sostanza, come succede ai cittadini UE residenti in un altro stato UE del quale non abbiano assunto la cittadinanza). Per diventare cittadina deve fare domanda e superare un esame di lingua, di livello molto semplice, e un test che attesti le sue cognizioni fondamentali sulla storia lettone, sugli articoli della costituzione e sull’inno della Lettonia.
«Questa guerra» dice Inna, «ha mostrato che la società è divisa, e una parte della popolazione russofona – i non cittadini – si sente offesa. E allora guardano indietro verso il passato, quando facevano parte dell’Unione Sovietica. La cosa che però mi stupisce è che non siano solo gli anziani a parlare così, ma anche dei giovani.» Sul suo portale Inna ha definito fin dall’inizio “guerra” l’“operazione speciale” di Putin. Il che le ha procurato commenti e accuse di appoggiare il fascismo. «Una gran parte dei russofoni in Lettonia è stata purtroppo per lunghissimo tempo sotto l’influenza dello spazio di informazione russo. Lì tutto viene presentato in modo tale per cui non è necessario possedere un pensiero critico. Ti viene raccontato quello che succede nella “realtà”, in modo tale che tu non debba metterlo in dubbio.» Cosa sia la “realtà” nella televisione di stato russa è semplicemente inimmaginabile per chi non l’abbia mai guardata.
Immagine tratta il 28/02/2022 dalla TV russa Rossija 1, fonte.
Il 25 febbraio 2022 Dainis, giovane attivista e direttore dell’associazione “Protests”, andava alla manifestazione indetta a Daugavpils contro l’aggressione militare all’Ucraina. Tutto gli sembrava chiaro, univoco, quali divergenze di opinione avrebbero potuto esserci su questo? Viaggiava in autobus, avvolto in una bandiera ucraina. Lui e altri avevano con sé cartelli su cui Putin era definito fascista. Scendendo dall’autobus Dainis sente un altro conducente che fumando una sigaretta grida: «i fascisti siete voi!»
Daugavpils, città di (im)possibilità, città di contraddizioni e divisioni che nell’ultimo anno sono diventate ancora più taglienti.
Joren, di famiglia mista russa e polacca, direttore dell’associazione New East, parla un lettone perfetto e non crede che i russofoni siano una parte marginalizzata della società. In lettone dice: «Io non conosco nessuno che oggi aspetti che qualcuno venga qui a salvarci. Parlando in russo, quale che sia la tua appartenenza etnica, puoi parlare di amore per la Lettonia, per l’Europa, per la democrazia».
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