Bolscevichi, guerre contro i contadini, carestie, costruzione dell’Urss
di Andrea Graziosi
Immagine di copertina, fonte.
Arduo è l’esercizio di comprendere come e quanto il passato illumina il presente. I drammatici avvenimenti che dal febbraio 2022 funestano l’Ucraina – la guerra d’invasione russa per dirla senza eufemismi – quali radici, quali origini dirette o indirette hanno in avvenimenti e processi accaduti in Russia e in Ucraina dopo il 2014 (annessione della Crimea)? E, prima ancora, dopo il 1991 (fine dell’Urss)? E, ancor prima, in epoca sovietica, dalla rivoluzione dell’Ottobre 1917 in poi?
Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice Officina Libraria riproponiamo di seguito un estratto dell’introduzione che lo storico Andrea Graziosi ha scritto alla nuova edizione italiana (2022) della sua La grande guerra contadina in Urss. Bolscevichi e contadini (1918-1933), con una selezione dalle Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso settentrionale nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-1933.
Dalla scheda dell’Editore: “I primi quindici anni dell’Unione Sovietica furono dominati da una guerra feroce tra bolscevichi e contadini e nomadi di più nazionalità che avevano dapprima apprezzato il sostegno dei comunisti alla divisione della terra e la loro denuncia dell’imperialismo grande-russo. Il conflitto, in tre atti, si concluse tragicamente tra il 1931 e il 1934 quando Stalin, dopo aver imposto la fame ai kazaki per rifornire le città sovietiche, trasformò le carestie provocate dalle sue politiche in strumenti per sottomettere chi rifiutava la «seconda servitù» imposta alle campagne dalla collettivizzazione. L’Ucraina, già granaio d’Europa, fu uno dei teatri principali di questa guerra e Stalin, che negli anni Venti ne aveva appoggiato la «costruzione nazionale», vi adottò nel 1932 politiche di sterminio dei contadini, ritenuti base del movimento nazionale ucraino, e di liquidazione delle élite politiche e culturali. La «decostruzione» nazionale che ne seguì impose una versione sottomessa e provincializzata di una cultura ucraina la cui esistenza non fu tuttavia negata. Affondano in quel periodo le loro radici tanto il nazionalismo grande-russo di cui Stalin avviò allora una rivitalizzazione poi sanzionata dalla vittoria del 1945, quanto un sentimento di alterità ucraino, che si nutrì del trauma dell’Holodomor. Il libro è composto da un testo su questa guerra, scritto nel 1996 sulla base delle fonti d’archivio resesi disponibili dopo il crollo dell’URSS, e da un’ampia selezione dei bellissimi e terribili rapporti diplomatici italiani sulla grande carestia ucraina del 1932-33, che l’autore pubblicò più di 30 anni fa. Una nuova introduzione dà conto dei recenti sviluppi della ricerca, che ha indagato i legami tra guerra contadina e carestie e insistito sulla natura plurale e differenziata di queste ultime, inserendo il caso sovietico negli studi comparati sulle carestie politiche e i genocidi del XX secolo”.
La tesi, oggi ampiamente accettata, alla base del presente libro di Andrea Graziosi è, dunque, che lo Stato e il socialismo sovietici sono stati fondati su una grande e prolungata guerra contro le campagne durata dal 1918 al 1933. Questa lunga guerra – componente essenziale, forse la componente essenziale, della costruzione del sistema sovietico – si è svolta in perlomeno due drammatici periodi (1918-1922 e 1928-1933), due fasi che hanno avuto un legame profondo con la questione nazionale. A porre fine a questa guerra, nel modo più terribile, fu la “grande carestia” dei primi anni Trenta del Novecento in Ucraina come per altri versi in Kazakistan – (“i kazaki, le cui mandrie furono requisite con la forza, erano nomadi non-slavi che abitavano terre colonizzate dall’impero zarista, la tragica carestia kazaka porta con chiarezza il marchio del più brutale modello coloniale immaginabile”, osserva Graziosi).
Fonte immagine.
Immagine: Soviet agents take food from peasants in Novo-Krasne, Ukraine, in November 1932.
Scrive Andrea Graziosi nell’Introduzione (per il testo completo e relative note si rimanda al volume dell’Officina Libraria):
… «Si potrebbe quindi anche leggere le guerre e le carestie scatenate da Mosca contro contadini e nomadi come manifestazioni di un atteggiamento e di comportamenti coloniali. In effetti, alla fine degli anni Venti, basandosi sulle teorie del trotskista Evgenij Preobraženskij, Stalin fece un aperto riferimento, nelle discussioni interne al gruppo dirigente, alla possibilità e alla necessità di trattate le campagne come una “colonia interna”. E gli studi sulle rivolte e la fame in Kazakistan hanno dimostrato senza ombra di dubbio il contenuto direi prototipicamente coloniale di una guerra-carestia in cui più di un milione di nomadi morì perché un centro alieno e distante li depredò delle loro risorse per nutrire i bastioni del suo potere. Anche delle guerre e delle carestie in Ucraina, o nel Caucaso, si potrebbe dare ed è stata data, con qualche fondamento, una lettura simile, che però non credo aiuti a meglio capire quanto vi ebbe allora luogo, che ha motivazioni e cause più complesse.
Cosa ci dicono questa guerra contadina e le carestie che vi posero fine sulla natura del progetto trasformativo sovietico, sul suo fallimento e sul suo peso nelle società post-sovietiche? Alla loro luce, è davvero possibile e realistico analizzare quel progetto e il suo svolgimento in termini di semplice “modernizzazione”, come pure è spesso stato fatto? La morte per fame di milioni di contadini, e le politiche che l’hanno provocata, suggeriscono che l’uso di quel termine porti a sottovalutare l’essenziale componente ideologica di quel progetto, impedendo di vedere sia le sofferenze delle vittime che le idee e le intenzioni dei perpetratori e oscurando alcune delle ragioni profonde del fallimento finale.
Se, innegabilmente, una qualche “modernizzazione” fu alla fine pur sempre realizzata, si trattò quindi di una modernizzazione molto peculiare, guidata da idee sulle strutture socio-economiche, la loro trasformazione e la loro gestione, che includeva per esempio la convinzione che i contadini, e le loro piccole aziende, fossero ostacoli di cui sbarazzarsi al più presto e con la forza per imboccare la via verso il socialismo. Questa convinzione ci permette di capire perché, malgrado la sua retorica, la modernizzazione socialista sia stata costruita sulla repressione piuttosto che sulla partecipazione attiva della popolazione a un processo che altrove ebbe come protagoniste le scelte individuali. Ed essa ci aiuta a spiegare perché, come ho già accennato, il progetto trasformativo socialista abbia originato buona parte delle più grandi carestie politiche in tempo di pace del XX secolo, di cui le “carestie comuniste” costituiscono un sottogruppo di grande rilevanza e dotato di caratteristiche proprie.
Vorrei però concludere attirando l’attenzione su un altro aspetto della variante sovietica della modernizzazione, che pone il problema del peso della sua eredità in modo a cui non si è finora prestata l’attenzione necessaria. Penso al ruolo della presenza del genocidio nel passato sovietico. Sul fatto che si tratti di genocidio, o meglio di un insieme di genocidi di vario tipo, non vi possono essere più dubbi. Come dimostra quanto abbiamo appreso sulla carestia kazaka o sul Holodomor [morte per fame] ucraino (ma si potrebbe fare riferimento anche alle deportazioni forzate che comportarono la morte in pochi mesi del 20-25% delle popolazioni colpite, alla distruzione pressoché totale della Chiesa ortodossa negli anni Trenta, ecc.), il progredire delle nostre conoscenze ha infatti più che confermato le ipotesi avanzate nel 2010 da Norman Naimark. Del resto anche Raphael Lemkin, il creatore della categoria di “genocidio”, era convinto che l’Holodomor vi rientrasse a pieno titolo.
È quindi indispensabile ripensare la nostra immagine dell’esperienza sovietica e del XX secolo in questa luce, una luce che ci aiuta anche a capire meglio le diverse strade intraprese dalle varie repubbliche post-sovietiche a partire dal fallimento dello stato e del sistema sovietico. Per quanto riguarda la Russia, essa ci lascia inoltre meglio intravedere anche alcune delle ragioni di un altro fallimento, quello del possibile riavvicinamento all’Europa dopo il lungo allontanamento innescato dal 1917.
Non è infatti solo per caso che i diversi stati nati dal crollo dell’URSS abbiano scelto come perni dei loro indispensabili discorsi di legittimazione elementi tanto diversi, e dalle conseguenze, anche psicologiche, quasi opposte. In Russia, l’iniziale riconoscimento delle sofferenze patite dalla popolazione – pensiamo alle coraggiose battaglie di Memorial, oggi chiusa da Putin come organizzazione “straniera” – è stato presto sopraffatto dalla decisione, per certi versi inevitabile e già avviata nel periodo brežneviano, di vedere nella vittoria del 1945 la base del nuovo stato. Ma come ci ha insegnato Vasilij Grossman nel suo bellissimo Vita e destino, il 1945, col suo brindisi di Stalin al grande popolo russo, esprime anche e forse in maniera preponderante il secondo volto di una guerra che fu sì di resistenza contro, e liberazione da, un invasore spietato, ma divenne poi e forse soprattutto per Mosca una affermazione di potenza, sopraffazione e oppressione, contro le popolazioni dell’Europa centro-orientale prima di tutto ma anche contro una parte significativa del suo “popolo”.
Forse altrettanto naturalmente, l’Ucraina finì invece per prendere, come simbolo della sua nuova identità le sofferenze causate dalla grande carestia del 1932-1933, sentendosi dunque paese vittima che vedeva in altri paesi vittima le sue naturali controparti. Anche così, credo, si spiega l’ascesa alla presidenza di un candidato di origine ebraica, che oggi rappresenta al meglio la straordinaria fermezza dei discendenti delle vittime dell’Holodomor di resistere quando più possibile ad una nuova, grande sopraffazione» …
Andrea Graziosi insegna storia alla Università di Napoli ed è stato Presidente della SISSCO-Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea e della Agenzia Nazionale per la Valutazione della Università e della Ricerca. Ha insegnato a Harvard, Yale, Parigi e Mosca, è associé al Centre d’études des mondes russe dell’EHESS e fellow dell’Ukrainian Research Institute e del Davis Center for Russian and Eurasian Studies a Harvard. I suoi libri sono stati pubblicati in diversi paesi. Tra quelli in italiano Lettere da Kharkov (1991), Guerra e Rivoluzione in Europa 1905-1956 (2001); L’Urss di Lenin e Stalin (2007) e L’Urss dal trionfo al degrado (2008), Il futuro contro (2019) e, con Giuliano Amato, Grandi Illusioni. Ragionando sull’Italia (2013). Ha fondato e diretto a Mosca la serie Documenti di storia sovietica.
Fonte immagini: Roman Serbyn, compiler and editor, Photographic evidence of the Ukrainian famines of 1921-1923 and 1932-1933, “Holodomor Studies”, 2, No. 1 (Winter-Spring 2010), pp. 63-94.
1 Commento. Nuovo commento
[…] il grano dal loglio. Bolscevichi, guerre contro i contadini, carestie, costruzione […]