Storie di ebrei che fanno i conti con criminali considerati eroi, con cosacchi, polacchi, russi, tedeschi e…
di Helena Janeczek
Immagine di copertina: Alla Horska, Images for the play Goose finished that way by M. Kulish, 1962-1963. Ukrainian Unofficial.
Da un annetto c’è pieno di gente indaffarata a ricordarmi che gli ucraini sono stati i peggiori antisemiti, feroci collaborazionisti, e poi Stepan Bandera eroe nazionale ecc.
Questa cosa – come tutte le forme del “vattelapescasplaining” – ha pure un aspetto involontariamente comico.
Per noi ebrei originari dell’Est-Europa, i cosacchi – cioè gli ucraini, sostanzialmente – incarnavano il terrore atavico da ben prima che venissero surclassati dai tedeschi.
Per la precisione dal lontano 1648, quando l’etmano “Bogdan il Nero”, Bohdan Chmel’nyc’kyj, guidò un’insurrezione contro la nobiltà polacca e, già che c’era, ammazzò un numero significativo di ebrei. La contabilità è incerta – migliaia o centomila? – non la memoria ebraica. Anche perché da lì in avanti i pogrom divennero la norma, soprattutto quando il potere centrale su quelle terre multietniche entrava in crisi. L’impero zarista – che ci marciava più degli altri – oppure l’impero austroungarico (un po’ meno, ma comunque) o ancora lo Stato nazionale polacco tra le due guerre.
Immagine: La “zona di residenza” degli ebrei nell’Impero zarista, qui sintetizzata per il periodo 1835-1917, fonte.
Immagine: Distribuzione degli oltre 4,3 milioni di ebrei nella “zona di residenza” in base al censimento del 1897, fonte.
La monarchia asburgica aveva la seconda più grande popolazione ebraica, dopo l’Impero russo. Nella stessa monarchia, il maggior numero di ebrei viveva nella parte austriaca (Cisleitania). Quasi due terzi (66,2% nel 1900) degli ebrei austriaci vivevano in Galizia. Nella stessa Galizia, il maggior numero di ebrei (75% nel 1900) risiedeva nella parte orientale (ruteno-ucraina). Fonte immagine.
Erano legati entrambi a Leopoli i due giuristi ebrei a cui venne in mente la necessità di definire un nuovo tipo di reato che si applicasse alle violenze tra le comunità a cui avevano assistito nella loro giovinezza, nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale: ucraini e polacchi si massacravano gli uni e gli altri convergendo a massacrare gli ebrei.
Hersch Lauterpacht, nato nella Galizia austroungarica (oggi Ucraina occidentale), studia a Vienna e poi finisce per fare carriera a Londra. A servizio dei britannici – che gli daranno pure il titolo di “sir” – partecipa al processo di Norimberga, dove riesca a introdurre il concetto del diritto internazionale e umanitario che ha sviluppato: “crimini contro l’umanità”.
Raphael Lemkin, invece, era nato nell’odierna Bielorussia e aveva assistito a un pogrom russo-imperiale a Białystok nel 1906, ma come studente nella Leopoli polacca negli anni 1920 comincia a farsi delle domande anche sul massacro degli armeni. Nel 1941 riesce per un soffio a salvarsi dallo sterminio scappando in Svezia e da lì negli USA. Gli americani lo portano come consigliere al processo di Norimberga, dove introduce la nuova fattispecie di crimine da lui elaborata: “genocidio”.
Nel dopoguerra si adopera perché quel concetto di “genocidio” faccia ciò a cui è servito formularlo: non essere applicato una sola volta e fungere da sommo deterrente. E sì, Lemkin, pur memore dei “cosacchi”, nel 1953 scrive un articolo sull’Holodomor dal titolo The Soviet Genocide in Ukraine.
Un crimine – perlomeno – contro l’umanità (come affermano oggi tutti i giuristi internazionali, eredi dei due citati sopra, a riguardo di quelli perpetuati da un anno in Ucraina) resta tale anche se il popolo che ne è vittima ne ha commessi in passato.
In più – incredibilmente – talvolta capita che gli “odi ancestrali” siano superati nel corso della Storia. I rapporti fra ucraini e polacchi oggi sono solidali e fraterni. E in Ucraina, stando a moltissimi sondaggi, c’è meno antisemitismo che in pressoché ogni parte dell’Est-Europa. E temo non solo lì a est. Questo non rende più simpatiche le statue di Stepan Bandera (leggi qui e qui) ma le mette in un contesto: quello di una popolazione maggioritaria – quella ucraina – che si è sempre trovata oppressa, se non peggio.
C’è La strada verso Est, questo bellissimo libro di Phillipe Sands, importante avvocato di diritto internazionale, che intreccia in modo estremamente leggibile e avvincente le storie della sua famiglia, anch’essa ebrea galiziana, con quelle di Lauterpacht e Lemkin.
Ultima cosa: penso che qualsiasi persona ragionevole non pensi più che i tedeschi di oggi siano tutti – o in stragrande maggioranza – nazisti. Allora mi spiegate perché l’idea che si possa cambiare nel tempo non si applica agli ucraini e, in genere, a molti abitanti dell’est-Europa? Forse perché si continua a immaginarli come non del tutto “occidentali”?
Immagine: Ben Jones, dettaglio.
Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre trent’anni. Poetessa e scrittrice, ha esordito con la raccolta di poesie in lingua tedesca Ins Freie (Suhrkamp, 1989), mentre ha scritto in italiano il suo primo romanzo, Lezioni di tenebra (Guanda 2011, Premio Bagutta Opera Prima), che racconta del viaggio compiuto ad Auschwitz insieme alla madre, che lì era stata prigioniera con il marito. È inoltre autrice dei romanzi Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), finalista al Premio Comisso e vincitore del Premio Napoli, del Premio Sandro Onofri e del Premio Pisa. Nel 2012 è uscito Bloody Cow (Il Saggiatore) e nel 2017 per Guanda La ragazza con la Leica, romanzo incentrato sulla fotografa Gerda Taro (Vincitore del Premio Strega 2018, Vincitore del Premio Bagutta 2018, Finalista al Premio Campiello 2018). È redattrice di «Nuovi Argomenti» e di «Nazione Indiana».
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