Due libri, un grande tema in Russia e in Polonia
di Andrea De Carlo
Immagine di copertina: in varie colorazioni verdi la Polonia diventata Russia al termine delle spartizioni (1772-1793-1795), fonte.
Mercoledì 19 aprile 2023, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, nell’aula Ex-Cataloghi lignei, via Porta di Massa 1, si è svolta la giornata di studio intitolata Russia e Polonia. Dinamiche del nazionalismo in contesto imperiale e post-imperiale, presieduta dal prof. Teodoro Tagliaferri, specialista di Storia contemporanea.
La prima parte della giornata è stata dedicata al volume di Giovanni Savino, Il nazionalismo russo 1900-1914. Identità, politica, società, FedOA Press, Napoli 2022. Con l’autore hanno dialogato il prof. Guido Carpi, docente di Letteratura russa presso l’Università di Napoli L’Orientale, e il prof. Daniele Stasi, docente di Storia delle Dottrine politiche presso l’Università di Foggia.
Nella seconda parte della giornata, invece, si è tenuta la presentazione del libro del prof. Stasi, Polonia restituta. Nazionalismo e riconquista della sovranità polacca, Il Mulino, Bologna 2022. Con l’autore hanno dialogato la prof.ssa Giovanna Cigliano, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Napoli Federico II, e il prof. Andrea F. De Carlo, docente di Lingua e letteratura polacca presso l’Università di Napoli L’Orientale.
Nella sua presentazione della giornata, il prof. Teodoro Tagliaferri afferma che l’idea di promuovere una riflessione sui nazionalismi russo e polacco è maturata alcuni mesi fa nel corso della programmazione delle attività napoletane riguardanti il progetto di ricerca nazionale dedicato all’Europa imperiale della storia moderna e contemporanea, che vede coinvolti studiosi sia del Dipartimento di Scienze Politiche che del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II.
Le monografie di Savino e di Stasi, come giustamente osserva il prof. Tagliaferri, si prestano assai bene a essere esaminate congiuntamente. Ad accomunare, dunque, i due libri è il noto valore di contributo di prim’ordine alla piena comprensione del processo di nazionalizzazione degli spazi politici occupati dagli imperi dinastici asburgico, russo, ottomano ecc. La nazionalizzazione degli spazi imperiali presenta alcuni aspetti interrelati: in primo luogo, l’ascesa del nazionalismo in un’età di transizione alla politica di massa ridefinisce il tipo di differenza che l’autorità imperiale è chiamata a fronteggiare e, se ne è capace, a governare. Ma, in secondo luogo, il nazionalismo capace di plasmare gli spazi imperiali non è soltanto quello dei popoli che subiscono l’imperialismo, ma anche, come ben documenta la ricerca di Savino, il nazionalismo dei popoli imperiali.
Savino guarda al nazionalismo russo come un movimento da costruire e riempire tramite il necessario vaglio della vastissima varietà delle fonti primarie elencate nella bibliografia nell’insieme delle sue reti associative, delle sue iniziative politiche, dei suoi linguaggi simbolici e identitari, mettendo inoltre a frutto a questo scopo uno strumentario concettuale che gli proviene dalle più aggiornate correnti internazionali della storia imperiale.
Come dimostra il caso polacco indagato da Stasi, sui nazionalismi che si sviluppano negli spazi imperiali e negli stati post-imperiali plurinazionali, che si formano in seguito alla loro vittoria finale, incombe la necessità inesorabile di prendere posizione a loro volta sul tema del governo delle differenze al punto che le differenti soluzioni date al problema, almeno nelle dichiarazioni degli ideologi, si annoverano tra i principali fattori di articolazione e dissidio interno della comunità nazionale, come nel contrasto tra il nazionalismo etnico di Roman Dmowski e il nazionalismo civico di Józef Piłsudski.
Tagliaferri conclude il suo intervento introduttivo col dire che ciò che ha abbozzato è solo una delle possibilità di lettura e di impiego dei lavori di Savino e di Stasi. Altre possibilità di lettura verranno suggerite dai colleghi chiamati a dialogare con gli autori.
Il prof. Guido Carpi osserva che il libro di Savino presenta una mole di dati impressionante sullo sviluppo e sull’articolazione degli elementi nazionalisti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio della Prima guerra mondiale. Tiene però a precisare che il suo personale interesse è indirizzato al ruolo giocato dagli intellettuali nello sviluppo del nazionalismo russo. Fra l’altro, il russista avverte che è un luogo comune considerare la cultura di per sé come antidoto naturale contro il nazionalismo o lo sciovinismo imperialista nonché affermare che la cultura russa non c’entra nulla con quello che sta accadendo. Il ruolo giocato da importanti intellettuali, storici e letterati nell’elaborazione pratica dei movimenti nazionalisti dell’epoca fa capire in realtà che parlare di cultura come un innocente tutto unico non ha senso. La cultura è un campo nel quale si giocano battaglie decisive sull’articolazione anche dei programmi politici che condizionano la visione più o meno imperiale che una nazione ha di sé stessa. Quello che risulta abbastanza chiaro dal libro di Savino è il carattere estremamente contraddittorio dei movimenti di tendenza nazionalista che nascono in questo periodo nei salotti letterari e giornalistici.
Intellettuali, funzionari, lobbisti, dunque, si uniscono in un movimento che man mano diventa di massa come, per esempio, l’Unione del Popolo Russo (in russo Союз русского народа). Si tratta di un’organizzazione conservatrice e monarchica nata tra il 1905 e il 1917 sul suolo dell’Impero ed è volta all’unione del popolo russo. Un movimento con caratteristiche che si possono definire prefasciste, ma, a sua volta, articolato al suo interno con orientamenti molto diversi. È una strana esperienza del nazionalismo russo che si presenta abbastanza contraddittorio: sia per le sue caratteristiche tipologiche, perché nasce inizialmente come movimento intellettuale-giornalistico funzionariale per diventare in seguito un movimento politico vero e proprio, sia, per esempio, per il programma che si propone di perseguire. L’ambizione di trasformare l’impero in nazione significa voler “stiracchiare” la nazione su un vasto impero con evidenti contraddizioni. Per esempio, si pensi alla famosa triade: ortodossia, autocrazia, nazionalità. Quali di questi tre elementi deve essere quello prevalente nella costruzione di un’identità imperiale? A seconda di come si guardi la questione, è un imperialismo a geometria variabile. Se si pone alla base la fede ortodossa, restano fuori i popoli dell’Impero che non sono ortodossi e tendenzialmente anche i vecchi credenti. Se si mette alla base la lingua, restano fuori segmenti che sono di fede ortodossa ma che non sono russofoni.
È sin da subito difficile capire quali criteri debbano esserci alla base dell’identità imperiale. Non va dimenticato, inoltre, il problema della differenza nazionale delle masse contadine che devono essere nazionalizzate. Va da sé che l’Impero russo viene da un passato di compartimentazione nel quale i contadini non hanno avuto alcun modo di sentirsi un’entità nazionale. A volte appaiono contraddizioni anche paradossali: per esempio, si pensi al territorio di Cholm (in polacco Chełm), storicamente appartenente alla Polonia, che viene inglobato dall’Impero russo perché si riteneva popolato da contadini russi ortodossi. In realtà, si trattava di contadini ucraini uniati prima della soppressione della Chiesa greco-cattolica. Altro paradosso è la rivoluzione del 1905 con l’introduzione di garanzie semi costituzionali. La nascita di una cassa di risonanza come la Duma rende possibile la trasformazione di movimenti politici con tendenze ideologiche che da una parte aborrivano la rivoluzione e qualsiasi tipo di evoluzione costituzionale dell’autocrazia, ma dall’altra iniziavano a fare politica nel momento in cui questi spazi venivano a crearsi.
Molto interessante è l’analisi sull’origine sociale e culturale di numerosi attivisti, in maggioranza provenienti dalle periferie occidentali dell’Impero. Si trattava essenzialmente di intellettuali, storici, giuristi che spesso erano figli di sacerdoti che si trovavano ad agire in territori a maggioranza cattolica o uniate. Il discorso religioso nella propria identità di nazionalista era prevalente, anche se contavano molti altri elementi che erano necessari per la nazionalizzazione delle masse. Per questi attivisti, invece, per ragioni anche di carattere familiare, la religione restava centrale. Il capitolo che riguarda il monastero Počaevskaja Lavra incoraggia una riflessione sulla questione religiosa. I monaci Centoneri presentavano sì aspetti di nazionalismo popolano e rozzo, ma di indubbio successo tra i contadini di quella zona di confine che dovevano far fronte ad alcuni problemi sociali: per esempio, si era fatta richiesta di requisire le terre ai proprietari terrieri polacchi. Erano terre in cui il nazionalismo e l’ideologia di estrema destra uniti a un antisemitismo particolarmente veemente si coniugavano a richieste di riforme sociali del tutto inaccettabili nel quadro dell’Impero.
Se la rivoluzione non ci fosse stata, la Chiesa ortodossa russa, anche per selezione del personale, che in massima parte era costituito da individui provenienti dal popolo, sarebbe stata l’incubatrice di un originale movimento fascista russo. Si avrebbe potuto avere probabilmente un movimento fascista di tipo clericale con accenti teocratici.
In conclusione, dal libro di Savinio si evince il carattere contraddittorio, imperfetto e monco del nazionalismo russo; un nazionalismo in un Impero che nazionale non poteva essere per definizione.
Il prof. Daniele Stasi inizia il suo intervento parafrasando Józef Piłsudski, secondo il quale, la Polonia o è grande o non è. Nel volume esaminato da Savino, si potrebbe sostenere nella traiettoria del nazionalismo russo alcuni snodi temporali significativi nel tardo Impero. La Russia è imperiale o non è. Rimandi alla questione etnica, geografica, linguistica e religiosa, benché l’autore non manchi di rivelare che quest’ultima rappresenta una delle principali marche dell’identità russa. Essi costituiscono elementi della nazione purché sempre necessari e insufficienti a definire una società immaginaria, i rapporti etnici al suo interno e i rapporti anche con le altre nazioni. Tra i temi ideologici maggiormente ricorrenti della natura discorsiva del nazionalismo tra il 1900 e il 1914 vi sono almeno quattro che rappresentano agevoli corrimani per addentrarsi in un tessuto connettivo complesso, la coincidenza tra Russia e Slavia, l’autocrazia o lo stato come dominio, il rapporto tra il ceto intellettuale e più generalmente le altre sfere, in particolare il popolo, la presenza del nemico. Quest’ultimo elemento è indispensabile ai fini della rappresentazione del gruppo del “noi” e dunque di un’appartenenza che non riconosce attraversamenti individuali da un gruppo a un altro, poiché ciò equivarrebbe a un tradimento. L’identità del gruppo del “noi” risulta precedente e superiore a ogni scelta di carattere soggettivo, il diritto della nazione è individuale. Sotto questo profilo basti ricordare come si poteva accedere per statuto all’Unione del popolo russo, probabilmente, rivela l’autore, la più grande e numerosa organizzazione delle destre russe. L’adesione era permessa solo ai veri russi, mentre i sudditi non russi potevano aderire solo sulla base del pronunciamento unanime degli iscritti e, se accettati, non potevano ricoprire alcun ruolo direttivo. Possibilità che per gli ebrei era esclusa. Emerge tra l’altro una prima bozza di legge elettorale della Duma in cui si cerca di imporre un argine alla rappresentanza di altre nazionalità: la convivenza tra gruppi etnici e religiosi deve rispecchiare il primato dei russi sulle altre identità nazionali. Tale superiorità è basata su due altri meccanismi ideologici ricorrenti nel discorso nazionalista: l’identificazione della Russia con la Slavia, per cui il gruppo nazionale è chiamato a rappresentare di fatto l’identità di una comunità etnica variegata e l’esistenza del nemico, contro il quale il primato di un gruppo nazionale costituisce lo strumento maggiore di contrasto, il pilastro intorno a cui si sviluppa l’identità di un popolo o di un insieme di popoli. Il nemico, ad esempio, è l’ebreo. Quest’ultimo costituisce l’antagonista, ossia colui che si oppone o che esercita una forza contraria all’esistenza della Slavia e dunque della Russia quale alfiere principale della salvaguardia del mondo minacciato dal cosmopolitismo e dalle ambizioni espansionistiche di altre realtà e culture politiche. La salvaguardia dell’identità è strettamente connessa con il pensiero nazionalista, l’allargamento territoriale e la russificazione. L’Impero in questo senso costituisce lo sbocco naturale del discorso nazionalista che anche su questo lato dimostra la sua distanza dall’idea di spazio transnazionale improntato al riconoscimento e all’allargamento dei diritti di tipo moderno. L’ostacolo all’allargamento territoriale sono quei popoli, soprattutto i polacchi, che sono la vera bestia nera delle aspirazioni nazionaliste russe. La Polonia è ostile al panslavismo e dunque è la pietra d’inciampo, l’ostacolo maggiore all’espansione russa e alla salvaguardia dell’identità slava. La Polonia è accusata di tradimento soprattutto degli intellettuali politici provenienti dalle zone di confine della provincia della Vistola. L’occidente slavo cattolico contrapposto all’oriente slavo ortodosso costituisce la quinta colonna del nemico. Il confronto con l’elemento ostile, con le serpi polacche, tanto nel Regno del Congresso, quanto nella regione di Cholm non può che avvenire nel contrasto ai processi di colonizzazione e di cattolicizzazione che minano le basi del disegno del dominio della nazione russa sugli altri popoli. Le misure sostenute dagli intellettuali più oltranzisti rispetto a questo tema si tradurranno nelle limitazioni dell’utilizzo della lingua polacca nelle aule universitarie a Varsavia, con l’imposizione di misure volte a contenere, se non a cancellare, una cultura ostile, inconciliabile con il dominio russo. La società polacca in assenza di un proprio ostacolo è ridotta quasi a nazione culturale e impegnata tra Otto e Novecento a progettare la conquista dell’indipendenza nazionale che vedeva il coinvolgimento delle masse e la completa integrazione del popolo, come era in programma di Democrazia Nazionale (Endecja). Contrariamente ai russi che, al contrario, rivendicano con diversità di accenti la funzione fondamentale dell’autocrazia nell’integrazione delle varie anime della nazione e dei ceti sociali. Le masse e il popolo dovevano seguire lo zar, in un eccesso di intimidazione con la figura carismatica dei Romanov, quale autentica incarnazione della causa russa, ovvero slava, custode dell’identità nazionale.
L’Unione del popolo russo non è un partito. Da questo punto di vista si può scorgere una differenza con il nazionalismo etnico polacco di Roman Dmowski. La discrepanza tra il nazionalismo russo e quello polacco consiste nel fatto che in Polonia non vi sia una figura carismatica in grado di rappresentare la nazione come lo zar. Endecja è un partito di massa le cui linee programmatiche al momento della sua fondazione alla fine dell’Ottocento erano ricavate in parte dal lungo dibattito in Polonia attorno all’esistenza della nazione malgrado la sua sottomissione al potere straniero. Allo stesso modo dei liberali positivisti, ad esempio Bolesław Prus e Aleksander Świętochowski, i nazionaldemocratici si pongono l’obiettivo di elevare la nazione dal punto di vista culturale, economico e politico in assenza di un potere statale che rimaneva, nonostante i rovesci tra Otto – Novecento, il primo punto del programma di Democrazia Nazionale. La realizzazione dell’obiettivo dell’indipendenza era associata allo sviluppo della coscienza, del profilo culturale e politico della nazione. A differenza dell’Unione del popolo russo, Democrazia Nazionale elaborò strategie politiche, modelli organizzativi di militanza tipici di un partito moderno affine a quello del partito socialista polacco, i quali, almeno nella fase della loro traiettoria politica, per certi versi, si confusero. Nel percorso del nazionalismo russo una delle cesure temporali più significative è certamente la convocazione della prima Duma. Appuntamento rispetto al quale i nazionalisti arrivano con il loro carico di incoerenze: fra le altre, la russificazione delle aeree dell’Impero, il contrasto e l’ambizione della rinascita polacca.
Nel volume viene analizzata con ricchezza di particolari la vicenda dell’assemblea della Duma in relazione allo svilupparsi sul piano ideologico e politico del movimento nazional-conservatore che tra il 1901 e il 1911 conosce un momento di maggior espansione e successo. L’assemblea è ritenuta dai nazionalisti fonte di elaborazione di leggi non paragonabile sul piano della dottrina istituzionale a un organo legislativo. La Duma avrebbe dovuto svolgere un ruolo di supporto al potere dello zar e non essere rappresentativa di quelle istanze che per i nazionalisti potevano assecondare un particolarismo centrifugo da cui sarebbero derivate la rovina della nazione e la decadenza dello stato.
La forte presenza dei partiti di sinistra nella seconda Duma e la manovra tesa a impedire ai socialdemocratici di svolgere il loro mandato provocarono la reazione dello zar che il 16 giugno 1907 riformò il sistema di voto dando peso alle preferenze delle classi più abbienti. Ciò contribuì allo zar di avere un’assemblea a lui maggiormente favorevole. Tali scelte assecondavano le intenzioni dei nazionalisti che nel passaggio dalla seconda alla terza Duma furono favorevoli alla drastica riduzione dei rappresentati di contadini e di nazionalità non russe, privilegiando la grande proprietà terriera.
Nell’ultimo capitolo del volume, Savino non manca di rilevare le storture soprattutto in relazione alla propaganda che colpisce la regione di Cholm. In quella regione i polacchi, come affermato nel memorandum sulla questione della secessione dei governatorati di Lublino, rappresentano l’elemento “più folto e benestante della regione”. L’élite polacca della regione esercitava un potere socioeconomico tale da costituire il maggior ostacolo alla russificazione della zona che passava innanzitutto dal recupero dell’essenza ortodossa e russa dove addirittura, in base alla narrazione di un vescovo, si poteva trovare le tracce di un passato russo. Lo stesso vescovo si batteva per ottenere attraverso il dibattito parlamentare il coinvolgimento dell’opinione pubblica sulla nascita del governatorato di Cholm, approvato dalla Duma solo nel 1912, dopo uno scontro in aula tra i nazionalisti russi e polacchi. La stessa regione, dove nascerà un governatorato il 1° settembre 1913, sancì un modello di esclusione della lingua e della cultura polacche da ogni ambito dalla vita pubblica. I deputati polacchi denunciarono il progetto di legge che stabiliva il nuovo governatorato come una quarta spartizione della Polonia, che avrebbe cancellato l’identità linguistica e religiosa in favore dell’elemento russo. La provincia ebbe tuttavia una breve durata: dopo essere stata occupata dagli austriaci allo scoppio della Grande guerra, venne successivamente abbandonata. Il nazionalismo russo come quello polacco rimane legato a un progetto di modernizzazione della propria nazione che agisce attraverso la leva della politica. I due nazionalismi appaiono straordinariamente simili non solo per il retaggio slavo, per gli stilemi narrativi, per l’organizzazione del discorso, per i riferimenti alla storia, alla geografia delle nazioni che sembrano rientrare nei canoni del cosiddetto nazionalismo metodologico. Quest’ultimo subordina ogni dimensione della vita sociale al fine di conquistare la supremazia del proprio popolo. Fuori da questa logica ci sarebbe solo il dissolvimento dell’identità nazionale e la fine dello stato sovrano.
Il nazionalismo può essere imperiale come nel caso russo, oppure regionale come quello polacco. Sul crinale di questa distinzione sembrano definirsi le peculiarità di un discorso che rimane in entrambi i casi comune e non si esaurisce nel periodo preso in considerazione nel lavoro di Savino.
La prof.ssa Giovanna Cigliano introduce il volume di Daniele Stasi. Passa in rassegna gli argomenti trattati nei cinque capitoli che compongono il libro: nel primo capitolo, l’autore approfondisce il realismo politico in rapporto alla tradizione romantica ottocentesca. Se nelle riflessioni di Piłsudski le aspirazioni romantiche si coniugano all’ideale della lotta insurrezionale emancipato dal principio messianico della fratellanza tra i popoli, l’elaborazione dottrinale nazionaldemocratica si fonda sull’egoismo nazionale e il rifiuto della rivolta a difesa dei valori della nazione. Oggetto del secondo capitolo è il pensiero di Dmowski sulla nazione nel confronto con il movimento conservatore, con quello socialista e con l’“elemento esterno”, la minoranza ebraica, quale ostacolo per i nazionaldemocratici alla resurrezione nazionale. Il terzo capitolo riguarda la costituzione dello stato polacco e in particolare il contributo di Dmowski e Piłsudski alla definizione dei suoi confini e del suo assetto istituzionale. Nel quarto capitolo è analizzato il confronto tra le forze politiche sulla forma costituzionale che sfocerà nella Costituzione di marzo 1921. Il quinto capitolo ha per argomento la crisi della giovane democrazia polacca determinata dall’assassino di Gabriel Narutowicz nel 1922 e dalle critiche soprattutto dei nazionaldemocratici e dei piłsudskiani al parlamentarismo che portarono alla svolta del 1926.
Nella cultura politica polacca all’inizio del Novecento, emergono le figure carismatiche di Józef Piłsudski e Roman Dmowski, su cui si incentrerà la lotta politica nella rinata Repubblica polacca dopo il 1918. Il pensiero nazionalista dei due leader politici contribuisce a definire il concetto di identità nazionale polacca nella prima metà del Novecento. Le differenze ideologiche e la diversa provenienza sociale e geografica di Dmowski e Piłsudski si ripercuotono sulle strategie politiche dei movimenti di cui fanno parte: Democrazia Nazionale nel caso di Dmowski e il Partito socialista polacco (PPS) a cui appartiene in gioventù Piłsudski. Il nazionalismo di Democrazia Nazionale era di tipo borghese e conservatore, quello del Maresciallo era rappresentativo dell’intellighenzia rurale, della piccola nobiltà decaduta, di comunità che coltivavano, oltre all’interesse per la letteratura e la storia della Polonia, il sogno del futuro riscatto nazionale.
Il nazionalismo civico di Piłsudski e dei suoi sostenitori ha le sue radici nella Repubblica delle due nazioni (Rzeczpospolita Obojga Narodów), nata dall’unione del Granducato di Lituania e il Regno di Polonia, fino al suo smembramento alla fine del Settecento inglobava diverse etnie e gruppi sociali. Obiettivo dello stato indipendente doveva essere per Piłsudski rilanciare la polonesità (polskość) quale base della convivenza pacifica e dell’inclusione sociale, opposta a un’idea di identità nazionale di tipo esclusivamente etnico. Per il Maresciallo, i polacchi, i bielorussi, i lituani e gli ebrei erano figli dello stesso suolo. Piłsudski al pari di Adam Mickiewicz e Juliusz Słowacki, padroneggiava sia la lingua polacca sia quella bielorussa ed era cresciuto in un ambiente culturale aperto dal punto di vista linguistico, religioso e sociale.
Per il nazionalismo etnico (o integrale), sviluppatosi nella cultura polacca intorno alla fine del XIX secolo, il riscatto della Polonia costituiva un obiettivo che doveva essere disgiunto dalla liberazione delle altre nazioni e si poteva realizzare, contrariamente agli ideali romantici, attraverso l’esclusiva affermazione dell’identità e degli interessi della propria comunità nazionale. L’etica romantica, secondo il nazionalismo etnico, conduce a un’immagine falsa della nazione e della sua reale posizione nel contesto dei rapporti internazionali. L’appartenenza di un individuo a una comunità nazionale non nasce dal richiamo a radici e valori culturali comuni, tra cui la letteratura, che rappresenta, per il pensatore romantico Maurycy Mochnacki, la coscienza della nazione (sumienie narodu), bensì dal riferimento alla propria etnia che nel pensiero di Zygmunt Balicki resta indefinita se non messa in relazione con un nemico oppure un elemento rivale esterno. Se nella concezione romantica la coscienza nazionale è fondata su una cultura comune, nel caso del nazionalismo etnico tale coscienza matura in relazione alla lotta tra le nazioni, di fronte alla minaccia esterna alla propria esistenza in quanto polacchi.
La nascita del movimento di Democrazia Nazionale determina una definitiva spaccatura nel movimento patriottico causata dall’abbandono del concetto romantico di fratellanza tra i popoli a vantaggio del “sacro egoismo nazionale”. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si formano due teorie della nazione destinate a diventare egemoni nei decenni successivi e contrapposte in merito al tema dell’indipendenza nazionale: la prima è volta a creare uno stato nazionale forte e in grado di concorrere alla costruzione di una convivenza, nei limiti del possibile, pacifica tra le nazioni; la seconda è fondata su una lotta permanente trai popoli. Da queste due teorie derivano altrettante concezioni del nazionalismo: quello “civico” di nazione, di origine francese, opposto al modello “etnico” di origine tedesca. Il primo considerava la nazione uno spazio politico comune, definito in base a un insieme di istituzioni, di norme, progetti di carattere politico. Il secondo è incentrato sull’idea di nazione legata alla lingua, alla religione e un insieme di tradizioni comuni.
Il nazionalismo etnico enfatizza le differenze di tipo nazionale, il nazionalismo civico annulla tali differenze in base al diritto di cittadinanza.
Prende la parola il prof. Andrea F. De Carlo. Il libro del prof. Stasi vuole essere la continuazione del lavoro precedente: Le origini del nazionalismo in Polonia (FrancoAngeli, Milano 2018) che aveva come oggetto la nascita del pensiero nazionalista polacco nell’elaborazione di Jan Ludwik Popławski (1854-1908), giornalista e politico, che insieme a Dmowski fece parte di “Gazeta Polska” e con cui divenne uno dei maggiori esponenti e teorici della corrente nazionalista. In quella di Zygmunt Balicki (1858-1916), sociologo e uomo politico, esule per motivi politici, fu uno dei fondatori della Lega Nazionale (Liga Narodowa) e le sue pubblicazioni trattavano l’idea dello stato, il parlamentarismo, la psicologia sociale. Particolare risonanza ebbe il suo Egoizm narodowy wobec etyki (1902, ‘L’egoismo nazionale di fronte all’etica’). E, infine, nella riflessione di Roman Dmowski (1864-1939), il quale sostenne una politica di alleanza con la Russia e di inimicizia con la Germania, che considerava un grande ostacolo per lo sviluppo polacco.
Con l’ascesa al ruolo di leader di Roman Dmowski e la trasformazione nel 1893 della Lega Polacca – Liga Polska, la prima formazione d’ispirazione nazionalista in Polonia, organizzazione segreta fondata nel 1886 – nella Lega Nazionale e inizierebbe il secondo periodo, o il periodo moderno del nazionalismo polacco, le cui origini si possono far risalire al fallimento della Rivolta di gennaio del 1863, ultima di una serie di sollevazioni (1830, 1848, 1863) verificatisi dopo l’ultima spartizione della Polonia nel 1795. Le spartizioni – tre: 1772, 1793, 1795 – furono opera delle potenze confinanti (l’Impero russo, il Regno di Prussia, la Monarchia asburgica) e segnarono il crollo della Confederazione polacco-lituana nata nel 1569. Come conseguenza del fallimento di tutte le sollevazioni la nuova generazione di politici e patrioti polacchi giunse alla conclusione che l’indipendenza della Polonia non sarebbe dovuta avvenire sul campo di battaglia, ma attraverso l’istruzione e la cultura.
Dalla Liga Narodowa del 1893 nacque il Partito Nazional-Democratico (Stronnictwo Narodowo-Democratyczne) costituito nel 1897. Al termine della Prima guerra mondiale, con la riconquista dell’indipendenza della Polonia, il partito venne ribattezzato nel 1919 Unione Popolare Nazionale (Związek Ludowo-Narodowy) e nel 1928 Partito Nazionale (Stronnictwo Narodowe).
La figura di Piłsudski già nel 1914, e almeno fino al 1939, fu circondata di un’aura leggendaria. Un ruolo importante fu giocato dalla letteratura che aveva contribuito a far nascere il mito di una delle figure più importanti e al tempo stesso più controverse della storia polacca. Piłsudski, cospiratore, condottiero militare, capo di stato, che governa in modo paternalistico, rimproverando e rasserenando la sua nazione, era considerato una leggenda vivente: veniva paragonato a illustri personaggi storici: re Bolesław Chrobry (Boleslao I di Polonia, detto il Prode), Stefan Batory, Tadeusz Kościuszko e molti altri.
Una leggenda vivente che con il passare del tempo si è trasformata in un vero e proprio mito, alla cui nascita contribuiscono molti poeti del XX secolo, in particolari i cosiddetti Skamandryci ma anche quelli della generazione successiva, p.es. Józef Czechowicz, Władysław Sebyła, oppure, con varie esitazioni, Konstaty Gałczyński. Nei loro testi viene paragonato a Konrad o al futuro Salvatore della patria indicato dal vate romantico Adam Mickiewicz con la cifra cabalistica “quaranta e quattro”. Durante la guerra polacco-bolscevica, viene raffigurato come Napoleone, Jan III Sobieski, Cesare o Carlo Magno.
Dalle rappresentazioni stereotipate di Piłsudski si evince che cambiano nel tempo o a seconda della ricezione sociale o del governo di turno. Durante la formazione dell’esercito polacco, alle soglie della Prima guerra mondiale, nasce l’immagine di un folle romantico che crede nella realizzazione dei vecchi ideali indipendentisti. Le legioni, come movimento culturale prima che militare, hanno definitivamente plasmato il mito di Piłsudski e soprattutto è stato elevato al di là della sfera profana. Nulla più poteva scalfire il suo mito, nemmeno la sconfitta sul campo di battaglia né le prigioni di Magdeburgo, perché tutto ciò fu percepito dalla collettività come un martirio.
Agli inizi della Seconda Repubblica le arti visive e la letteratura iniziarono a raffigurare il Maresciallo nelle vesti di aratore (oracz) o di seminatore (siewca). Piłsudski diventa simbolo della nazione, il padrone che mette da parte il suo ruolo per vestire i panni dei suoi concittadini, al fine di “coltivare” insieme a loro la Polonia.
Non mancarono i detrattori del mito di Piłsudski che provarono a screditarlo cercando di inculcare nei polacchi il culto competitivo del generale Józef Haller che durante la Prima guerra mondiale si era procurato la fama di eroe nazionale. Anche se la propaganda di Democrazia Nazionale si trovava in difficoltà poiché non riusciva a decidersi se attribuire i meriti del miracolo sulla Vistola (Cud nad Wisłą) del 1920 al generale Haller o al generale Tadeusz Rozwadowski.
Gli attacchi rivolti a Piłsudski servivano a dipingerlo come disinteressato alla causa della Slesia o di Leopoli, presentarlo come un affiliato della massoneria internazionale, o persino un rappresentante degli ambienti giudeo-massonici. Secondo uno dei pregiudizi dell’epoca, il Maresciallo cospirava di comune accordo con gli ebrei e i bolscevichi per distruggere la Polonia.
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