Nicola Chiaromonte, il senso del destino e il destino europeo dell’ideologia
di Raffaele Manica
Credere e non credere è il libro che Nicola Chiaromonte si portò dentro per tutta la vita, che pensò a lungo di realizzare e il cui esito fu occasionato da una serie di conferenze: il risultato – in inglese nel 1970 col titolo The Paradox of History; in italiano nel 1971: Chiaromonte scomparirà all’inizio del 1972 – forse non era nemmeno ciò che aveva immaginato di scrivere. Ma, lo dicono le date, è il libro testamentario di Chiaromonte, oltre che il suo unico pubblicato in vita, tolto un pamphlet (di grande rilievo) e una raccolta di cronache teatrali.
Credere e non credere avrebbe dovuto intitolarsi L’uomo e l’evento, ma il titolo sembrò all’autore stesso un po’ esagerato e probabilmente troppo in debito col mondo dei greci, secondo una linea che ci ha insegnato a riconoscere Carlo Diano (il rapporto decisivo tra forma ed evento, appunto, soprattutto nei tragici). Tuttavia della direzione indicata da quel titolo poi non adottato restano diffuse tracce e, anzi, un percorso evidente se Chiaromonte, memore di quell’indicazione solenne, intendeva andare a scrutare alcuni accadimenti della storia per come erano stati visti dagli occhi di grandi romanzieri e dei personaggi dei grandi romanzi, da Fabrizio a Waterloo (dove è forse la pagina più celebre di Chiaromonte), che vede e non vede Napoleone e che in mezzo a qualche schioppettata e qualche colpo all’arma bianca si chiede se davvero sia quella la famosa guerra della quale ha sempre sentito parlare. Così poca cosa? Solo un io stranito e pochi e indistinti compagni di avventura? Dilemmi che, come tutti ricordano, saranno anche di qualche ufficiale di Guerra e pace.
Gli occhi dei romanzieri colgono la storia meglio degli occhi degli storici, e sembra a Chiaromonte che, attraverso una piccola messe di romanzi possa andare a vedersi anche quale sia il destino di quella che fu una grande idea dell’Europa moderna, il socialismo: la sua riflessione nasce proprio su quella stessa di Rosa Luxemburg, e poi prende altre strade (anzi nel libro quasi si smarrisce…): «perché il movimento socialista, che aveva indubbiamente costituito il tentativo più vigoroso e intellettualmente ricco di promuovere la causa della giustizia e dell’eguaglianza in Europa, era stato scompaginato a tal punto dallo scoppio della prima guerra mondiale da non esser poi mai più riuscito a ricostituirsi in modo politicamente efficace e ideologicamente convincente? Come può un’idea esser sconfitta da un evento? Eppure il socialismo era certo stato sconfitto perché non era riuscito a opporsi validamente alla guerra. Prova flagrante di tale sconfitta, la vittoria del bolscevismo», sta scritto nell’introduzione.
Chiaromonte dialoga più di quanto non dia a vedere con altri critici della sua generazione: Isaiah Berlin per Tolstoj, a partire da Il riccio e la volpe, Irving Howe per i rapporti tra politica e romanzo e così via; e, preso nel suo insieme, il suo ragionamento sembra avere un interlocutore di eccezione in Ortega y Gasset, e alla questione delle credenze: dei diversi modi di credere sui quali il filosofo spagnolo ha variamente ragionato.
Adesso che Credere e non credere viene ristampato negli Oscar Mondadori (con una bella introduzione di Alessandro Piperno) mi torna in mente una cosa piccola ma significativa successa preparando il Meridiano che raccoglie gli scritti politici, filosofici e letterari di Chiaromonte sotto il titolo Lo spettatore critico (titolo derivato da Chiaromonte stesso, e che ha su di sé le ombre di titoli di Addison, dello stesso Ortega e di Raymond Aron, tra gli altri). Nelle ricerche bibliografiche mi accorsi che la maggior parte delle copie della prima edizione di Credere e non credere (diventata un po’ rara perché stampata su carta di poca qualità) stava negli scaffali delle biblioteche dei seminari diocesani.
Ora, Credere e non credere, lo si è visto, non è un libro sulla religione, ma è dedicato appunto a quelle particolari forme di credenza che furono le grandi ideologie tra Ottocento e Novecento, osservate tramite grandi scrittori, da Stendhal e Tolstoj e Malraux e a Pasternak; una scelta che Chiaromonte spiega così: «perché mi son servito di opere d’immaginazione, anziché di opere teoriche o storiche, per discutere argomenti quali il rapporto fra l’individuo e l’evento storico e il ritorno del senso del Destino in un mondo che sembrava (e sembra tuttora) permeato una volta per tutte dell’ideale dell’evoluzione storica e del progresso? La risposta è semplice: a mio parere, è soltanto attraverso la finzione, e nella dimensione dell’immaginario, che è possibile apprendere qualcosa sull’esperienza autentica dell’individuo».
Quelle credenze furono a modo loro religiose, ebbero a che fare con ciò che chiamiamo destino e con ciò che chiamava destino un critico illustre, Giacomo Debenedetti, che tesseva ragionamenti sul romanzo del Novecento e sul personaggio-uomo proprio negli stessi anni nei quali Chiaromonte stava dando la scrittura finale e gli ultimi ritocchi a Credere e non Credere. Nelle cui prime pagine Chiaromonte scrive: «in Tolstoj, si manifestava un’idea che colpiva alla radice la visione storicista della vita. Questa idea era l’idea del Destino». Chiaromonte e Debenedetti non si incontrarono mai, credo (così mi testimoniò anche il figlio di Giacomo, Antonio): mondi diversi, come ci dice l’opposto giudizio su Pasternak. Ma il destino fa di questi scherzi, accomuna più di quanto non si possa supporre o dimostrare. L’alloro del critico è il più tardivo degli allori, arriva certe volte solo postumo, se pure arriva, scrisse Debenedetti per De Sanctis; e così fu per Debenedetti. Così è ora che sia per Chiaromonte, per il suo grande libro e per la sua grande opera.
A proposito di destino, sia consentito uscire qui in coda da Credere e non credere, ma solo per indicarne uno dei presupposti. Ha scritto una volta Wojciech Karpiński a proposito di un saggio di Chiaromonte e della sua straordinaria precocità: «Nelle sue riflessioni sul fascismo Chiaromonte parla delle ambizioni logocratiche dei sistemi totalitari. Di questo fenomeno, del potere sulle parole come condizione di totale asservimento delle menti e dei cuori, si occuperanno in seguito altri autori»: l’elenco va da George Orwell a Victor Klemperer, da Aleksander Wat a Zbigniew Herbert a Alain Besançon. Chiaromonte, scrive Karpiński, «parlava della concreta situazione politica della metà degli anni Trenta, ma mi aiutò a comprendere la situazione polacca degli anni Settanta». Non è dunque un caso non solo che Chiaromonte sia stato amico di «Kultura», ma che nella sua orbita intellettuale e politica, nell’orbita di «Tempo presente» e in quella della sua vita sia capitato Gustaw Herling. Quando Renata Colorni mi commissionò la cura del Meridiano Chiaromonte, tra gli altri motivi vi fu quello di far seguire ai volumi dedicati a Silone e a Herling un volume con gli scritti del «terzo fratello».
Ha scritto Herling: «Ci siamo incontrati all’indomani della soppressione della rivolta ungherese nel caffè Rosati a via Veneto. Nicola era teso, lo notai subito. Tra gli scrittori e artisti italiani, eccezion fatta per un piccolo gruppo di persone indignate e propense a esprimere la propria indignazione, la maggioranza “progressista” si divertiva a indovinare “quanti dollari fossero stati spesi dall’America per la sovversione ungherese”. Abbiamo cominciato la conversazione dall’Ungheria, ho visto crescere la tensione di Nicola, ho pensato che risorgeva in lui lo spirito della squadriglia di Malraux in Spagna (ne fece parte). All’improvviso entrò nel caffè un celebre scrittore italiano che preferisco non nominare, e domandò se poteva unirsi a noi. Non lo conoscevo di persona, ma lo conosceva bene Nicola, il quale fece cenno di sì ma non fu molto incoraggiante. Appena il celebre scrittore si sedette di fronte a noi, ritenne opportuno ripetere lo slogan comunisteggiante sui “dollari americani a Budapest”. Nicola diventò pallido, lo mandò via in malo modo dal nostro tavolino, e per molto tempo non riuscì a placare la sua agitazione. Lo guardavo in silenzio; probabilmente in questi lunghi minuti avvenne il coup de foudre al cospetto di una tale solidarietà e sensibilità, più unica che rara allora in Italia».
Alla suora benedettina con la quale fu in corrispondenza negli ultimi anni di vita, il 20 giugno 1969 Chiaromonte scrisse: «Come vorrei poter passare almeno qualche giorno vicino a un uomo quale Solženicyn. Quel che mi manca di più, qui a Roma, è un vero amico. The nearest to that is Gustavo Herling – ma non vive a Roma». Il dialogo sullo scrittore russo tra Chiaromonte e Herling è stato accolto nei libri dell’uno e dell’altro; e quante pagine di Herling a parlare di tanta vicinanza, nel Diario scritto di notte. Il sentimento della politica è stato una grande cosa, un destino che ha diviso e unito, e che ha segnato perfino il sentire dei romanzieri. La traiettoria disegnata in Credere e non credere nasce non solo da lontano, ma da diversi punti cardinali.
In Italia fu Chiaromonte a invitare Gustaw Herling a collaborare con la neonata rivista mensile “Tempo Presente” di Roma, da lui fondata insieme a Ignazio Silone e pubblicata fino al 1968 (prima serie). La collaborazione tra i due intellettuali è stata così riassunta: «Lo scrittore polacco Gustaw Herling-Grudziński, insieme alla sua rivista tamizdat degli emigrati polacchi a Parigi, “Kultura”, riesce a legare (…) la letteratura sovietica del dissenso, alla rivista di Silone e Chiaromonte in modo indissolubile».
Immagine: Nicola Chiaromonte (a destra) e Gustaw Herling. Nel 2015, nell’ambito della Fiera del Libro di Varsavia, l’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia, la Fundacja Terytoria, “Zeszyty Literackie” e Wydawnictwo Literackie, organizzarono l’incontro «Nicola Chiaromonte e Gustaw Herling, due eretici nell’Italia del Dopoguerra», dibattito in occasione dell’uscita in Polonia dei taccuini di Nicola Chiaromonte. L’incontro venne così introdotto: “Negli anni dopo la Seconda Guerra Mondiale Nicola Chiaromonte, dopo un lungo periodo di esilio in Francia e negli Stati Uniti, ritorna in Italia. Vi trova un paese politicamente spaccato in due schieramenti principali, Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Il suo spirito antitotalitario, difensore di una società umana libera, lo porta a non aderire né all’uno né all’altro restando coerente ai suoi principi e di conseguenza lucidamente ai margini del dibattito politico dell’epoca. Il suo pensiero e il suo atteggiamento lo avvicinano ad alcuni intellettuali polacchi tra cui Gustaw Herling-Grudziński che aveva deciso di trascorrere il suo esilio dalla Polonia Comunista, in Italia. La situazione politico-culturale in Italia, nonostante la ritrovata democrazia, non riesce a cogliere l’originalità e l’importanza dell’opera e del pensiero di entrambi, relegandoli ai margini del dibattito culturale”. Fonte.
Edizioni polacche di vari scritti di Nicola Chiaromonte.
Nel volume omaggio all’Italiano errante sono ripresi estratti riferiti a Nicola Chiaromonte nel Diario di Gustaw Herling.
Raffaele Manica è ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Dirige la rivista «Nuovi Argomenti» dal 2006. Dal 1998 è critico letterario di «Alias», con articoli soprattutto su classici del Novecento. Autore di numerosi interventi sulla letteratura del Novecento raccolti parzialmente in quattro volumi, è autore di monografie su Moravia e su Praz. Ha introdotto e curato le opere di Alberto Arbasino e di Enzo Siciliano nei “Meridiani” Mondadori. Per la stessa collezione ha curato il volume dei saggi di Nicola Chiaromonte. Ha vinto il Premio Napoli per la saggistica nel 2007 con Exit Novecento; il Premio Francesco De Sanctis nel 2010 per l’introduzione ai “Meridiani” di Arbasino, Se il romanziere non racconta storie; il Premio Bonura per la critica militante nel 2018; il Premio Val di Comino per il complesso dell’opera nel 2019; il Premio internazionale Mondello per Praz nel 2019.