Armenia, Bielorussia, Cecenia, Georgia, Germania, Kazakistan, Polonia, Russia, Ucraina, URSS
di Dorota Danielewicz
Il dodicesimo Parataxe Symposium di Berlino, che si è tenuto nel maggio 2023, aveva come titolo generale Fluchtpunkt Berlin – osteuropäische Literaturen unter Druck. Gespräche, Lesungen und Diskurs (Berlino punto di fuga – Letterature dell’Europa orientale sotto pressione. Colloqui, letture e discorsi).
Il ciclo Parataxe, organizzato dall’associazione Berliner Literarische Aktion, riunisce la scena letteraria berlinese che opera in lingue diverse dal tedesco. La curatrice dell’ultimo simposio è stata Ani Menua. Originaria dell’Armenia, Ani Menua vive a Berlino dal 1997. È traduttrice, curatrice di incontri e pubblicista. Il suo lavoro e le sue pubblicazioni sono incentrati sulla lingua e sull’identità. Ani ha co-fondato il blog X3 podcast, in lingua tedesca, in cui affronta il tema del vivere in culture e codici linguistici diversi.
I dibattiti e le discussioni del Parataxe 2023 si sono tenuti presso la tradizionale istituzione berlinese Literarisches Colloqium Berlin nad Wannsee. I temi degli incontri sono stati le migrazioni e l’esilio ieri e oggi, la vita in terra straniera (In der Fremde – Migration und Exil gestern und heute); la guerra e la letteratura, il nuovo posizionamento della lingua e delle origini di fronte alla guerra (Im Angesicht des Krieges – Neuverortung von Sprache und Herkunft). In generale, la discussione si è concentrata sul lavoro di scrittori berlinesi provenienti in questo caso da Ucraina, Bielorussia, Armenia, Georgia, Cecenia, Kazakistan, Bulgaria, Polonia e Ungheria.
Recitava la presentazione del programma: “Berlino è un rifugio per scrittori e poeti, soprattutto dell’Europa orientale, da prima della guerra russa contro l’Ucraina. Ma da quando la situazione si è iinasprita, è ovvio che anche la letteratura sia diventata un campo di battaglia di conflitti culturali sulle lingue, i valori e la sovranità interpretativa. I despoti e le autocrazie vogliono censurare la letteratura, controllarla e usarla per i propri scopi. Che cosa ciò significa per noi? Che cosa abbiano da dire alle persone colpite? Come possiamo preservare insieme la libertà delle nostre letterature?”
Il discorso introduttivo, estremamente interessante, è stato pronunciato da Bozena Kozakevych. Nativa di L’viv, insegna alla facoltà di Storia dell’Ucraina (una storia intricata) presso l’Università Europea Viadrina (Europa-Universität Viadrina Frankfurt, Oder). Va aggiunto che ha una squisita padronanza, oltre che del tedesco, del polacco. Nella sua presentazione ha affrontato il concetto di “Europa dell’Est” (come viene comunemente definita dal cosiddetto Occidente), chiedendosi dove cominci e dove finisca realmente quell’area culturale. A seguito dell’assalto della Russia di Putin contro l’Ucraina, in Germania si sono (ri)aperti interrogativi sulla comprensione delle differenze culturali esistenti nella cosiddetta “Europa dell’Est”. Per la maggioranza della popolazione è ancora difficile capire che non esiste un “Est” omogeneo; e che oltre l’Oder e la Neisse vi sono molteplici spazi culturali, c’è varietà di lingue, di storie, di popoli. A più di trent’anni dal crollo dell’Unione Sovietica, l’orientalità è ancora identificata con il sovietismo (o la sovieticità), oggi definita volentieri in relazione alla sua “origine post-sovietica”. Ma per quanto tempo un paese rimane “post-sovietico”?
Saltanat Shoshanova, attivista del movimento queer kazako, è conduttrice di PostOst podcast. Post-Ost vale a dire: post-est, non più post-sovietico. I partecipanti al simposio si sono spesso trovati a convergere sullo stesso punto. Vivendo a Berlino, creando e lavorando in tedesco, assorbendo le varie culture presenti in città, si sono chiesti all’unisono: per quanto tempo saremo percepiti come “ex-orientali”?
Al Simposio ho avuto l’onore e il piacere di partecipare come responsabile e moderatrice dell’incontro intitolato Krieg als Zäsur – Folgen für das literarische Schreiben (La guerra come cesura: conseguenze per la scrittura letteraria). Tra i miei ospiti c’era la poetessa ucraina Nadiia Telenchuk, che pubblica poesie in diverse lingue (inglese, tedesco, ucraino e, fino all’inizio della guerra, russo). Nadiia ha curato il progetto di spoken word Art Lab denominato AntiBabylon. Denominazione che ha molti significati, in questo caso indica la possibilità di intendersi indipendentemente dalla lingua. (N.B. Spoken word è una forma di poesia espressa oralmente e incentrata sul dialogo o il monologo). lI progetto sembra essere la naturale conseguenza di una persona a suo agio con più codici linguistici.
Di origine georgiana e attivo in Germania, il professor Zaal Andronikashvili, membro del Centro Leibnitz per lo studio della letteratura e della cultura (Berlino), nel key note speech che ha aperto il panel da me moderato, ha postulato la possibilità di rendersi indipendenti dal linguaggio attraverso la creazione di nuove forme linguistiche: un miscuglio anti-babilonese o forse anche un libro senza parole? Tuttavia, le visioni di vasta portata e chissà profetiche di Andronikashvili non hanno centrato lo spirito dei tempi (Zeitgeist) – questa è stata la mia impressione durante la discussione che ne è seguita. Intorno al tavolo regnava l’attaccamento alla lingua e l’ovvio – in tempi di guerra forse più che mai necessario – interesse per la lingua della cultura d’origine: ucraina, armena, cecena.
Il caso della lingua cecena era rappresentato sul podio dal poeta Apti Bisultanov, per il quale non si deve parlare di rinuncia alla lingua, al contrario. Dal crollo dell’Unione Sovietica, tra le repubbliche che hanno riacquistato o stanno ancora lottando per riconquistare la propria indipendenza – e ricostruire la propria cultura e la lettura della propria storia – la Cecenia e la sua lingua occupano un posto speciale. Si tratta di una nazione fortemente russificata, la cui lingua era condannata dalla Russia sovietica alla distruzione, all’oblio; e per questo ancor più veicolo della cultura e della consapevolezza di sé del popolo ceceno. Come tale, la lingua cecena merita di essere accudita e perpetuata.
Apti Bisultanov è poeta di particolare talento e merito. È considerato l’autore che ha rinnovato e addirittura stabilito il canone della lingua cecena contemporanea. Bisultanov ha in effetti creato una sintesi tra la lingua popolare e la lingua cecena moderna.
Il poema di Bisultanov Scritto a Chaibach è di particolare importanza per la creazione e la ricezione della sua poesia. Chaibach è il nome di un villaggio di montagna, nel quale gli stalinisti bruciarono vive 700 persone nel febbraio 1944, uno dei crimini più crudeli dell’epoca. C’era il piano di deportarne gli abitanti, ma fu impossibile realizzarlo a causa di una forte nevicata. Il comandante dell’operazione “liquidò” la popolazione rinchiudendola in una stalla, col plauso del capo dei servizi segreti di Stalin, Beria. Nella poesia Chaibach il soggetto lirico incontra le ombre dei bruciati che lo costringono ad ascoltare la loro storia. Bisultanov descrive la trasformazione della coscienza del popolo ceceno provocata dalle rivelazioni sul massacro di Chaibach. Quella apocalisse è parte della storia umana e minaccia tutti e ovunque, avverte Bisultanov. Per lui il sogno di un “libro senza parole” non troverà terreno fertile in tempi di distruzione culturale da parte delle nazioni imperiali.
Immagine, fonte.
Concludo citando la poesia di Bisultanov intitolata Patria nella mia traduzione (a sua volta da una traduzione tedesca):
Vivo in un paese chiamato patria
La sua costituzione è costituita da una sola frase:
Ogni cittadino ha diritto a una tomba nella propria patria
La sua capitale – la casa della madre
I suoi confini sono
A est – la nascita
A ovest – la morte
A sud – la luce
A nord – il dolore
Vivo in un paese chiamato patria
Dorota Danielewicz, foto di Peter Adamik
Dorota Danielewicz, traduttrice, scrittrice, pubblicista d’origine polacca, di Poznań. Vive a Berlino dall’età di 16 anni. E’ molto conosciuta nel panorama letterario tedesco. Ha lavorato come giornalista radiofonica per RBB- Rundfunk Berlin-Brandenburg per quasi 20 anni e ha scritto su giornali in lingua tedesca. E’ stata corrispondente di RFI da Berlino per 10 anni. In Polonia, a seguito della pubblicazione di Droga Jana (La strada di Jan, Wydawnictwo Literackie), autobiografia della madre di un figlio colpito da una rarissima malattia che lo ha reso per sempre bambino, nel 2020 è stata tra le 12 finaliste per il titolo di Superbohaterka (Supereroina) di “Wysokie Obcasy” che premia le donne polacche che cercano di “cambiare il mondo per il meglio”. Il suo primo romanzo Auf der Suche nach der Seele Berlins (Alla ricerca dell’anima di Berlino) è stato pubblicato nel 2014; il libro Der weiße Gesang. Die mutigen Frauen der belarussischen Revolution (La canzone bianca. Le coraggiose donne della rivoluzione bielorussa) nel 2022.