Ritorni senza partenze?
di Marta Nykytchuk
Immagine di copertina: Foto © di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele, fonte.
Venerdì 23 giugno a Roma in occasione della serata di chiusura della XX edizione del festival della cultura polacca di Corso Polonia 2023 all’Istituto Polacco di Roma si è parlato di una minoranza etnico-linguistica poco conosciuta anche in Polonia: i Lemki o Lemchi. Si tratta di montanari e abitanti degli altopiani ruteni stanziati nelle aree carpatiche. Un tempo i Lemchi abitavano le zone lungo la linea principale dei Carpazi orientali. In seguito alle deportazioni post-1945 i Lemchi sono stati dispersi in tutta la Polonia. Tuttavia, ancora oggi le più significative tracce dell’esistenza dei Lemchi si trovano nella regione dei monti Carpazi, nelle terre incuneate tra i confini della Polonia sud-orientale, dell’Ucraina sud-occidentale e della Slovacchia nord-orientale.
Immagine: Wilhelm Klave, Settlement areas of several rusyn ethnicities. Map showing the ranges of Carpathian highlander ethnic groups in southeastern Poland. Pogórzanie Wschodni, Pogórzanie Zachodni, Dolinianie, Łemkowie (in blue), Bojkowie, 2015, fonte.
Comincio dalla mostra fotografica di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele. S’intitola: Lemki. Ritorni senza partenze – “ritornano i nipoti senza essere mai andati via dalla loro terra, terra su cui non sono nati, ma ci tornano senza esser mai andati via”.
Entrando nella sala principale dell’Istituto sono rimasta affascinata dalle fotografie di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele. Le foto sui muri sono di entrambi e sono state collocate così da far scorrere un racconto sui Lemchi. Narrano una storia, ma senza pretese né desiderio di voler in qualche modo descrivere tutta la storia dei Lemchi. Piuttosto i due fotografi hanno scelto di illustrare il loro punto di vista, di proporre al pubblico il loro percorso personale in quelle terre. Ho avuto modo di dialogare con loro davanti alle fotografie esposte ed entrambi gli artisti, nell’illustrare la storia delle singole fotografie, hanno scherzato chiedendosi: “ma quante ne abbiamo selezionate?”. In effetti non c’è stato alcun conteggio, non c’era un totale ben specifico dell’uno o dell’altra da rispettare. Gli scatti sono stati dettati dalle emozioni e anche la scelta delle fotografie in mostra è stata fatta in base alle emozioni, alle sensazioni e reazioni che il solo fatto di riguardare e assemblare tante immagini ha suscitato in loro.
Entrambi hanno raccontato come si è svolto il loro viaggio. A guidarli nel 2017 è stato un ragazzo lemco, Damian Novak, che essi hanno seguito nel suo territorio, reale e immaginario. In pochi giorni ma intensi è stato infatti Damian a indirizzare l’esperienza dei due fotografi sul posto e ad accompagnarli agli incontri con le persone. La mostra è stata costruita in base anche ai racconti di Damian: “vedete qui c’era un nostro villaggio che ora non c’è più”, “il villaggio è del tutto scomparso, il bosco ne ha cancellato ogni traccia”. In questa zona ricca di boschi, al posto della vegetazione che si intravvede nelle foto, c’erano dei villaggi: “qualcosa che c’era e che ora non c’è”.
Quel “qualcosa che c’era e ora non c’è più” è rappresentato proprio nella prima foto che osservo, la foto scelta per aprire la mostra in senso orario. L’immagine è di natura rigogliosa, per niente tranquilla, ma potrebbe trasmettere pace e serenità, potrebbe essere vista come una grande presenza rassicurante. Segue la foto di un ponte, come se ci volesse far passare dall’esterno all’interno del villaggio, delle abitazioni, un ponte che ci porta all’interno della mostra, per poi passare al cimitero che evoca chi non c’è più; ma forse esprime anche la speranza dei lemchi nella loro rinascita, la speranza del ritorno.
Di Damian Novak abbiamo la foto della nonna a cui entrambi i fotografi desideravano rendere omaggio.
Partendo da lei, attraverso la foto che si concentra sulla porta d’ingresso di una casa, piano piano si entra nelle case delle persone. Il filo conduttore della mostra è, spiegano i due fotografi, “quello che abbiamo percepito noi e quello che ci è stato raccontato. La scelta del bianco e nero mescolata ai colori? Una scelta azzardata. Il libro è in bianco e nero e si parla di una storia che non c’è più e poi oggi rinasce”. E l’idea di rappresentare in bianco e nero le persone anziane? “È rarissimo mettere il bianco e nero con il colore durante una mostra, ma nella nostra mostra questi sono come dei segni di punteggiatura di una frase raccontata a colori, delle virgole in bianco e nero. Quando racconti una storia fai delle pause; e le nostre pause sono in bianco e nero” – spiega Roberto Gabriele. “La scelta dell’ultima foto della prima sala è simbolica e funge da immagine di raccordo perché vi è raffigurato un signore ripreso da dietro, non si vede il suo volto, solo la schiena si offre al nostro sguardo: è come se ci invitasse a spostarci nell’altra sala”.
C’è una seconda sala. Roberto Gabriele chiarisce che stiamo entrando in un altro mondo attraverso una piccola storia dei territori lemki. Ogni parete ha una sua storia. Qui, la fattoria di una coppia di contadini che stanno insieme da una vita. “Sono le storie ad essere più importanti per noi fotografi perché sono storie che riusciamo a raccontare in poche foto, anche due per muro. Ci piace la storia che c’è dietro, si riesce ad entrare in contatto con le persone e a raccontare la loro vita, l’interno delle loro case”. Sull’ultimo muro di immagini in bianco e nero si chiude l’intero percorso, che apre la discussione.
La serata ha unito fotografia, poesia e musica. Il progetto fotografico, prima di diventare una mostra, è nato per illustrare una raccolta di poesia lemca. L’antologia, curata da Silvia Bruni, s’intitola Ritorni / Powroty / Bepmaʜя, ed è edita dalla casa Editrice Austeria nel 2022. Proprio Silvia Bruni ha proposto di affiancare le poesie con fotografie in bianco e nero. Solo dopo la pubblicazione del libro, data la ricchezza del materiale raccolto, è nata l’idea della mostra. L’intero progetto nasce dalla consapevolezza che la popolazione lemca è stata perseguitata nel tempo. In tempi recenti molti giovani hanno creato delle associazioni per riscoprire i luoghi, riprendere le tradizioni e salvaguardare la cultura lemca.
Dall’introduzione di Olena Duć-Fajfer a Ritorni / Powroty / Bepmaʜя: “Poco più di settanta anni or sono il mondo lemco subì […] una frattura che per tutti gli autori qui presenti costituisce la realtà preponderante di ogni giorno, inalienabile, viva nelle coscienze sebbene da tempo assimilata. Negli anni 1945-1947 si assistette alla scomparsa di un universo di persone le cui radici affondavano lungo i dolci declivi del Beskid Niski e che qui avevano creato un universo […] – Łemkowyna. Una politica unificatrice condotta senza compromessi, volta a neutralizzare la varietà culturale del paese, riuscì allora, in vario modo, a sradicare le comunità indigene. Ai Lemchi spettò una delle soluzioni più impietose: l’abbandono forzato dei monti nativi e il trasferimento in Ucraina e negli ex territori orientali della Germania annessi alla Polonia dopo le due guerre mondiali. L’assimilazione così pianificata raggiunse gli effetti sperati non dimostrandosi tuttavia fino in fondo efficace”.
Dalla Postafazione di Silvia Bruni: “Dopo la diaspora del gruppo etnico, la lirica lemca ha espresso con toni ineditamente forti, oltre che autentici e variegati, l’assoluto e incondizionato attaccamento alla terra delle origini, l’amata Łemkowyna – per le carte geografiche Łemkowszczyzna. È essa al contempo ‘universale, partecipe di tutto quanto sia umano: di ogni cosa possa commuovere individui di qualsiasi nazionalità e lingua’. La sublimazione del rimando al fatto storico e ai suoi risvolti più intimi e particolari messa in atto dagli autori è compiuta a decantare i principi morali a fondamento del riscatto del male di ogni tempo: il rispetto per il prossimo, l’amore per il creato, il senso del sacro. Nasce da qui la decisione di consegnare al lettore questa parte del repertorio poetico lemco, in un’antologia volta a farne approdare in Italia i primi saggi. Di questo patrimonio letterario – monito a favore di un comportamento etico salvifico per l’umanità – e dell’intera comunità lemca costituita oggi da alcune migliaia di individui, si intende contrastare l’oblio trasmettendone i valori più caratteristici ben oltre i confini geografici originari e invogliando a una loro più approfondita conoscenza. Fanno da contrappunto ai brani scatti paesaggistici nonché dettagli architettonici, elementi del folclore e momenti di vita quotidiana immortalati dalla penetrante e ricettiva sensibilità di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele nella terra patria del pittore Nikifor e della famiglia dell’artista Andy Warhol”.
Durante la presentazione dell’antologia e la lettura delle poesie tradotte in italiano, Olena Duć-Fajfer ha accuratamente sottolineato come la popolazione lemca sia riuscita a sopravvivere nonostante ogni oppressione. I motivi per cui i Lemchi sono riusciti a mantenere l’identità culturale sono molteplici, tra cui il fatto di essere gente di confine; la loro appartenenza religiosa alla chiesa ortodossa; e il fatto di essere contadini liberi, non servi della gleba. La prima presenza dei Lemchi compare nel 1820 come comunità distinta per la forma dei villaggi e le tipiche cupole in verticale, con la cupola più bassa fino ad arrivare a quella più alta del campanile. I Lemchi si occupavano di pastorizia e artigianato, producevano pietre da mulino, croci stradali e commerciavano in untume. Sicuramente il loro tratto caratterizzante è stata la lingua che utilizza l’alfabeto cirillico per la propria scrittura e contiene dei tratti dell’ovest e dell’est oltre che dei tratti ungheresi. È una lingua di confine a tutti gli effetti con numerosi elementi slavi e orientali, influenze rumene e slave ortodosse. I primi testi più antichi in lingua lemca risalgono al XVI secolo. A partire dal 1914 si inizia a pubblicare un settimanale in lingua lemca sulla trascrizione fonetica della lingua parlata. Da lì prende avvio la produzione di libri e la creazione letteraria in lingua lemca. Nel XX secolo c’è stata una classe intellettuale importante che anelava all’indipendenza dei territori dei lemchi, la lemkovina che inizia a chiamarsi così dopo il 1918 quando molti piccoli paesi iniziano a reclamare la propria indipendenza. Anche i Lemchi vogliono un proprio Stato. Alla fine della Prima guerra mondiale, con lo scioglimento dell’Austria-Ungheria per un breve attimo (dicembre 1918-marzo 1920) viene fondata la Repubblica russofila di Lemko-Rusyn (Ruska Narodna Respublika Lemkiv), che si oppone all’unione con la Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale, ma che poi viene assorbita dalla seconda Repubblica di Polonia (1918-1939). Specialmente nel periodo tra le due guerre si assiste a un vero e proprio momento di fioritura della comunità dei Lemchi, i quali ottengono molti diritti, tra cui l’insegnamento della propria lingua. Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli anni 1945-1947 segnano un periodo particolarmente drammatico. La Polonia comunista, come molte nazioni in quel periodo, per salvaguardare innanzitutto la propria lingua, in una interpretazione stretta della polonità avvia l’eliminazione delle minoranze linguistiche. Moltissimi Lemchi, ha riferito Olena Duć-Fajfer, all’incirca 120 mila, sono sfollati: il 70% è deportato in URSS e il 30% è trasferito forzatamente sui territori ex tedeschi diventati polacchi (i confini orientali e occidentali della Polonia sono stati spostati di 250 km verso ovest dopo gli accordi internazionali sanciti a Potsdam).
Di fatto – ha continuato Olena Duć-Fajfer – moltissimi Lemchi, diventati allora parte della minoranza ucraina in Polonia, hanno resistito per non soccombere e mantenere la loro identità. Negli anni 1980 è stato creato tra l’altro il gruppo folkloristico lemkovina: si trattava di un gruppo rappresentativo e portatore dei simboli della minoranza. Proprio da quel periodo riemerge la cultura lemca. Dal 1991 viene data la possibilità dell’insegnamento della lingua lemca nelle scuole polacche. Iniziano a diffondersi libri e manuali, la grammatica della lingua e il vocabolario testuale che permettono di studiare la lingua “originale”. Gli studenti Lemchi ottengono la possibilità di arrivare al diploma. Per molti può risultare un numero basso, ma nel 2013 si contavano 12 persone che avevano conseguito l’esame in lingua lemca. C’è poi Radio lem.fm che trasmette programmi in lingua lemca 24h su 24. Ora si cerca continuamente di lavorare e collaborare con le giovani generazioni per trasmettere loro elementi culturali e linguistici, il che porta a dei risultati “spettacolari”, non solo sul piano linguistico. Vi sono poi brani musicali moderni, poesie e composizioni cantate (jazz o adattate alla musica pop e a quella elettronica) ispirate alla musica tradizionale lemka (ascolta qui e qui e qui e qui).
Il desiderio di far perdurare la tradizione attraverso l’arte, la musica e la scrittura – secondo Olena Duć-Fajfer – c’è, dunque bisogna coltivarlo per salvaguardarla. Un ruolo importante per rinvigorire la cultura è la letteratura. Ci sono diverse opere in lingua lemca e pure traduzioni in lemco di opere molto famose (come la fattoria degli animali di Orwell o come il Piccolo Principe), anche i classici per bambini che fanno da collante a una tradizione che altrimenti sarebbe già scomparsa. Per converso esistono opere in lingua lemca tradotte dal lemco in francese e inglese.
L’etnia lemca è sicuramente minacciata, si parla del rischio di scomparsa della popolazione dei Lemchi. Ma di censimento in censimento risulta che, se da una parte sempre più persone riconoscono la propria appartenenza ai Lemchi, dall’altra sempre meno persone parlano la lingua lemca. Per cui tutto lo sforzo di preservare la cultura trova un ostacolo enorme nell’abbandono della lingua. In conclusione, per Olena Duć-Fajfer bisogna darsi da fare per propmuovere l’esistenza dei Lemchi. Per esempio, facendo leva sulle caratteristiche peculiari della letteratura lemca: una letteratura che vive di un’etica della permanenza; che esprime il dolore e il trauma vissuto di uno sradicamento; ma che è capace di esprimere la poesia di una casa che viene costruita di nuovo. “C’è speranza!”.
Nel corso della presentazione, Silvia Bruni ha tra l’altro tenuto a sottolineare l’aspetto multiculturale della Polonia. Ci siamo abituati a parlare di nazioni omogenee, ma non è così. In realtà siamo un mosaico di esperienze culturali e di provenienze etnico-nazionali. Infatti, Silvia Bruni ha deciso di presentare la cultura lemca non limitandosi al pubblico solo polacco, ma promuovendola anche all’estero, portandola all’attenzione di chi si approccia alla cultura polacca per la prima volta. Per fortuna la realtà lemca dura e vive ancora. Quindi l’idea è quella di far passare il messaggio della sua sopravvivenza attraverso la poesia, che è il linguaggio più rappresentativo della vita. La poesia è il genere più sfruttato dai Lemchi stessi per poter sopravvivere. Infatti, la curatrice e traduttrice ha spiegato di aver scelto i componimenti di più facile comprensione per chi si avvicina alla creatività lemca. Ha scartato componimenti più criptici scegliendo cinque scrittori (tra cui autori e autrici), anche per rappresentare la varietà degli stili della letteratura e della poesia lemca. Ogni autore ha un suo chiaro corpus di caratteristiche specifiche e l’insieme dei brevi componimenti autorali esalta la varietà degli approcci. Le tematiche che ricorrono di più sono quella del rapporto fra Lemchi e polacchi; ma dagli aspetti politici ci si allontana, semmai ci si avvicina alla terra, al rapporto con la terra.
Silvia Bruni ha infine spiegato la scelta di corredare l’antologia poetica con immagini che non fossero invadenti, donde la preferenza per le fotografie in bianco e nero. Per entrare nella comunità lemca senza causare momenti difficili da gestire a causa della distanza culturale, i due fotografi, Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele, hanno saputo “agire con tatto, delicatezza e discrezione”. In Ritorni / Powroty / Bepmaʜя è stata riportata soltanto una scelta delle migliaia di foto scattate. La mostra è ovviamente un’estensione dello sguardo fotografico riportato nel volume.
Infine, Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele hanno raccontato che sono giunti alla conoscenza del popolo lemco proprio nel momento stesso in cui Silvia Bruni ha iniziato a scoprire la cultura lemca: aveva appena iniziato a leggere le poesie non ancora tradotte. In sostanza quella dei Lemchi è stata una scoperta pionieristica per tutti. Per spiegare il suo approccio Roberto Gabriele ha evocato il film di Forrest Gump: “ascoltando i relatori che mi hanno preceduto, guardavo me stesso e pensavo al film in cui il protagonista si ritrova coinvolto a sua insaputa nel fare qualcosa di più grande di lui. Ebbene noi abbiamo iniziato il percorso sei anni fa e a tutto si poteva pensare ma mai a questo risultato”. Insomma “mi sono ritrovato in mezzo a una folla di persone (tante e incuriosite) che correvano insieme a me come accadeva a un certo punto nel film a Forrest che corre attraverso l’America – sono stato una specie di Forrest Gump della fotografia”. Simona Ottolenghi: “Ci siamo trovati in un territorio sconosciuto a dover raccontare qualcosa su una popolazione che non conoscevamo affatto e di cui si sapeva molto poco”.
Foto © di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele, fonte.
La serata si è conclusa con un evento musicale (musica contemporanea mista a musica elettronica) con opere originali in lingua lemca eseguite da due musiciste lemche, da anni impegnate nella divulgazione della cultura lemca: Daria Kuziak, voce, violino, elettronica; e Olga Starzyńska, voce, chitarra.
Le foto della mostra e della serata sono di Marta Nykytchuk.
2 Commenti. Nuovo commento
Voglio ringraziare pubblicamente Marta Nykytchuk per questo articolo che per la sua completezza e correttezza di informazioni è un piccolo trattato, credo il primo in Italia, sulla cultura dei Lemki.
Ben scritto, pieno di riferimenti e di fonti, citazioni e dettagli, racconta perfettamente non solo come è andata la nostra serata ma anche tutto quello che c’è dietro la sua realizzazione e sul mondo sconosciuto (per noi italiani) che vivono i Lemki.
Grazie a questo bellissimo articolo e all’intervista molto professionale che ci ha fatto Marta Nykytchuk, ho rivissuto a mia volta attraverso le mie stesse parole da lei perfettamente sintetizzate, la mia esperienza di fotografo tra i Lemki.
Vorrei chiedere alla brava giornalista Marta Nykytchuk di mettersi in contatto con me (ha già i miei recapiti) per come condividere, come promesso, il suo bellissimo scritto su tutti i nostri canali.
[…] pluralità dell’Europa. Marta Nykytchuk racconta dei Lemchi, questi sconosciuti. Una minoranza etnico-linguistica poco conosciuta anche in […]