Micol Flammini racconta il suo recente libro a Lidia Mafrica
di Micol Flammini e Lidia Mafrica
Prima guardavamo oltre la cortina come in uno specchio, in maniera confusa. Ma adesso vediamo a faccia a faccia. Micol Flammini, giornalista per “Il Foglio”, nel suo libro La cortina di vetro (Mondadori, 2023) separa e poi rimette insieme i destini incrociati dei paesi che hanno fatto parte del Blocco sovietico, evidenziandone le diversità e le analogie, le complessità risolvibili e i complessi irrisolti, per restituire un’immagine lineare degli scenari che hanno portato allo scoppio del conflitto in Ucraina e provare a guardare col senno dell’ora all’immediato futuro. Nell’intervista che segue, dialoga con l’autrice Lidia Mafrica, polonista e dottoranda presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.
Lidia Mafrica: In un periodo in cui, da più di un anno, gli sguardi di tutto il mondo sono per la prima volta puntati all’Ucraina in guerra e tanto la politica, quanto l’opinione pubblica sono costrette a vedere con un nuovo paio di occhiali Putin e la Russia, ne La Cortina di vetro hai invece fatto uno zoom out temporale e spaziale ripercorrendo le vicende storiche dei paesi che hanno gravitato intorno all’Unione sovietica. Per comprendere quello che avverrà in futuro, leggiamo sul risvolto anteriore della copertina, bisogna iniziare proprio dalla caduta dell’URSS. Il tuo libro nasce però da un’esigenza anteriore e più urgente, ossia quella di capire come si sia arrivati ad avere, nel 2022, un conflitto in Europa. Quali sono, anche in base alla tua esperienza come giornalista, i segnali principali della miopia occidentale nei confronti della politica estera di Putin?
Micol Flammini: Questi segnali andrebbero stesi tutti lungo una linea temporale fitta che renda possibile capire, anche a livello visivo, quanti sono stati in realtà. Ci sono quelli interni, tra cui gli assassini di giornalisti e oppositori, come Anna Politkovskaja nel 2006, che sarebbero dovuti servire a comprendere quanto la Russia avesse ormai sviato da un cammino democratico. Poi ci sono i fatti internazionali, che sarebbero dovuti suonare come campanelli d’allarme frastornanti. Sempre nel 2006, a Londra venne assassinato un ex cittadino russo che ormai aveva acquisito la cittadinanza britannica. Si chiamava Aleksandr Litvinenko, aveva lavorato per i servizi di sicurezza russi, prima nel Kgb poi nell’Fsb, assunse una posizione molto critica nei confronti del potere russo con attacchi puntuali. La storia è nota, venne avvelenato con il polonio e le indagini mostrarono che la sostanza radioattiva era stata portata da Mosca e un’inchiesta britannica accusò due spie russe. Un fortissimo segnale arrivò poi nel 2008, quando la Russia attaccò la Georgia. Tbilisi aveva chiesto di essere ammessa nella Nato, i paesi dell’Alleanza atlantica avevano detto che non era possibile, non volevano indispettire il Cremlino, che attaccò lo stesso e ancora oggi conserva basi militari nel territorio georgiano. Putin aveva prodotto in piccolo quello che poi sarebbe successo in Ucraina nel 2022. Anche in questo caso, prima dell’invasione su larga scala, c’era stata nel 2014 l’annessione illegittima della Crimea, l’inizio delle ostilità nel Donbas. L’elenco è fitto, ma l’Unione europea e anche gli Stati Uniti avevano deciso di continuare a fidarsi, un po’ perché il mondo che era stato costruito dopo la Guerra fredda era un’architettura pensata per restare in piedi per sempre, e un po’ perché gli interessi degli Stati Uniti si erano mossi altrove, prima in Medio Oriente, poi nell’Indo-Pacifico e la speranza era che la Guerra fredda fosse un ricordo. Putin invece iniziò a scardinare quell’idea di mondo molto presto, con picconate plateali che sono state accolte con un’indulgenza tale da alimentare il senso di impunità. Mi sono piaciute molto le parole della presidente georgiana Salomé Zourabichvili, che in un’intervista recente ha detto che non si può colpevolizzare il mondo per aver voluto provare a costruire un dialogo con la Russia di Putin. Nella volontà di continuare a credere nel cambiamento di Mosca c’è una dose di pigrizia, certo, ma anche un pizzico di idealismo.
LM: Nel titolo modifichi, o forse aggiorni, la definizione resa popolare da Churchill in riferimento alla suddivisione dell’Europa in due zone d’influenza politica, economica, culturale. Nell’introduzione al volume scrivi che, in seguito all’indipendenza dei paesi un tempo satelliti dell’URSS, “la cortina [di ferro] aveva perso l’impenetrabilità […]: i rapporti economici, gli scambi culturali e i viaggi l’avevano resa di vetro. Guardarsi attraverso quei confini valicabili era diventato più semplice, e anche spiarsi”. Lasciando a ulteriori considerazioni la possibilità che offre il vetro di guardare attraverso, su Treccani si legge che esso “per molte sue caratteristiche deve essere considerato un solido (durezza, resistenza, capacità di conservare la forma ricevuta ecc.), ma per altre va annoverato fra i liquidi (dei quali possiede la struttura disordinata, l’isotropia ecc.)”. Mi chiedo, e quindi ti chiedo, se nel coniare l’espressione scegliendo un nuovo materiale per questo solco nel cuore dell’Europa, tu abbia preso in considerazione anche le proprietà menzionate sopra.
MF: Si può andare a sbattere contro un vetro, pensando che non esista. Per distrazione, può capitare di non vederlo. Sicuramente questo non accade con un muro, o una barriera di ferro, che è lì, davanti a te, pesante, possente a dirti: di là non vai. La finta penetrabilità del vetro crea disordine e confusione.
LM: La cortina di vetro contiene stralci di interviste che hai condotto nel tempo, dialogando con chi ha dato il proprio contributo affinché cadessero i regimi del Blocco sovietico (penso all’intervista fatta a Lech Wałęsa), oppure, più di recente, a chi ha dovuto abbandonare il proprio paese per mettere in salvo sé stesso e i suoi cari, magari continuando a lottare in una nuova maniera dall’estero. Poco più di un anno fa sarebbe sembrato incredibile dovere un giorno riportare la testimonianza della fuga da Leopoli di Nuri, uno dei milioni di ucraini che, come racconti nel primo capitolo, con moglie, figli e suocera, ha cercato riparo a Cracovia in seguito all’invasione dell’Ucraina. Nel 2014 aveva scelto, per garantire l’incolumità della propria famiglia, la città più a occidente, e quindi la città più sicura. Nessuno credeva che non sarebbe bastato. O forse sì? La domanda suona volutamente retorica…
MF: Nuri al suono delle sirene ha deciso di scappare, una fuga immediata fatta con il ricordo delle tante persecuzioni subite da lui e dalla sua famiglia da parte dei russi. È un tataro, ha vissuto in Crimea fino al 2014, è fuggito dalla penisola dopo il finto referendum e nei giorni che ha trascorso lì durante l’occupazione è stato vittima di interrogatori molto duri. Il solo pensiero che i soldati di Mosca sarebbero potuti arrivare anche a Leopoli, dove si era ricostruito una vita, era insostenibile. Così è fuggito, ancora più a occidente. Nuri non credeva non sarebbe bastato, e come lui i tanti ucraini che si erano tristemente e silenziosamente abituati al conflitto nella parte orientale del loro paese. Ora a ovest si sentono abbastanza al sicuro, la forza con cui l’esercito ucraino sta combattendo ha stupito gli ucraini stessi.
LM: Nel libro affronti la questione della specificità della composizione etnica e linguistica in Ucraina, un tema spesso frainteso (gli stessi ucraini occidentali non sono immuni al pregiudizio che vede nella russofonia l’equivalente di una minacciosa russofilia). Potresti tornare brevemente sull’argomento?
MF: A febbraio 2023 mi sono fermata a Leopoli, in un centro per rifugiati, un agglomerato di prefabbricati bianchi costruito grazie a dei fondi stanziati dalla Polonia. In queste casette minuscole vivono gli ucraini in fuga dalla guerra, la maggior parte viene dell’est, dal Donbas, o da Kherson, da territori occupati o distrutti. Mi ha colpita molto quanta difficoltà facciano a integrarsi, i bambini per esempio seguono le lezioni online con la scuola di provenienza e non frequentano delle classi a Leopoli. Gli adulti non cercano lavoro, dicono che torneranno a casa. Molti di loro usano il russo per esprimersi, alcuni, soprattutto tra i più anziani, hanno anche iniziato lezioni di lingua ucraina. Fino al 2014, quando sono iniziate le proteste di Euromajdan, questa ricchezza linguistica era un mosaico. Molte cose sono cambiate dall’occupazione della Crimea e dalla guerra nel Donbas, in parte la politica ha deciso di rendere l’uso dell’ucraino più esteso con leggi apposite, in parte la stessa popolazione ha scelto di cambiare lingua. La storica ucraina Olena Stiazhkina, per esempio, mi ha raccontato di aver scelto di non parlare più russo, la lingua in cui era solita esprimersi e scrivere, quando è dovuta andare via da Donec’k nel 2014. Ora vive a Kiev, ha ammesso che non è stato semplice, anche perché l’ucraino non era la lingua in cui era abituata a scrivere o ad amare. Ma ce l’ha fatta. Tornando al quartiere per i rifugiati di Leopoli, anche lì le persone venivano esortate a parlare ucraino. Ormai è la guerra, e non la politica, che sta derussizzando l’Ucraina: un paese nato come composito, come un caleidoscopio di culture e lingue, per reazione più che comprensibile, si sta compattando.
LM: Gli inizi della tua formazione universitaria risalgono allo studio delle lingue e delle letterature russa e polacca (questo nella nota biografica che chiude il volume non c’è scritto, ma le mie fonti sono oggettive perché soggettive, di quegli anni abbiamo condiviso molto). Il tuo scendere direttamente sul campo, i tuoi viaggi, gli incontri con persone in carne ed ossa, hanno cambiato il tuo modo di pensare l’Est, o gli Est?
MF: Molto, e tu lo sai di prima mano. Abbiamo iniziato il nostro percorso, anche per ragioni personali, da prospettive molto diverse. La tua polonocentrica, la mia russocentrica. Quando viaggi nei paesi che racconto nel libro, per prima cosa hai il senso di una storia ancora viva, che ti parla da ogni angolo. Questa storia ha spesso a che fare con il rapporto con Mosca e capisci che quella finta nostalgia che si percepisce in Russia riguardo al passato altrove è dolore e paura. Le storie della resistenza e dell’indipendenza di paesi come la Polonia o i Baltici insegnano molto su cosa voglia dire conquistarsi il futuro, rivendicare l’appartenenza a un mondo che ti è stato precluso. E la lotta dell’Ucraina oggi ha anche a che fare con questo.
LM: Wisława Szymborska, che tu citi nel volume per la breve parentesi di giovanile entusiasmo che la poetessa manifestò in versi nei confronti di Stalin, scrive in La fine e l’inizio (1993, trad. it. Marchesani): “Dopo ogni guerra / c’è chi deve ripulire. / In fondo un po’ d’ordine / da solo non si fa”. Aggiunge Szymborska che “Non è fotogenico, / e ci vogliono anni”. Non ho dubbi nel ritenere che l’Occidente aiuterà l’Ucraina a risollevarsi anche quando le telecamere, parafrasando la premio Nobel, saranno già altrove a riprendere un altro conflitto. Ma cosa dire del momento in cui “Chi sapeva / di che si trattava, /deve far posto a quelli/che ne sanno poco. /E meno di poco. /E infine assolutamente nulla”, ovvero, sempre usando le parole della poetessa, di quando sulle cause e sugli effetti sarà cresciuta l’erba?
MF: Gli ucraini hanno capito che tra i loro compiti per la vittoria c’è quello di non far calare l’attenzione sul conflitto. Non lo fanno contenti di farlo, sanno che è un loro dovere e sono grati del fatto che i nostri occhi sono ancora rivolti a loro. A volte penso che se non avessero avuto un presidente attore questa missione in parte sarebbe stata sottovalutata, oppure svolta con meno cura. Non lasciare che l’erba cresca sulla memoria farà parte della ricostruzione della nuova Ucraina, un paese che si sta rafforzando mentre combatte, che sta assumendo consapevolezza di forza e identità, e che probabilmente sarà seguito nei suoi passi dai suoi alleati anche mentre non sarà più “fotogenico”. Il problema sarà guardare negli occhi la nuova Russia, affrontare anche la sua ricostruzione politica, economica, identitaria. Mosca non si sposterà, rimarrà lì al nostro confine, andranno impostate, in un futuro, le basi di una nuova convivenza. Se sulla memoria di Mosca crescerà l’erba, al di là degli sforzi che l’occidente può compiere per far in modo che la storia non si ripeta, la minaccia, le paure vecchie e nuove, rimarranno sempre lì.
LM: La cortina di vetro è il tuo primo libro, e i tempi verbali in un libro possono essere molto diversi da quelli che si trovano in un articolo di giornale. Che implicazioni ha, nello scrivere, la consapevolezza di non stare riportando notizie o commenti riguardanti l’attualità politica ma di parlare di fatti che, seppure avvenuti da poco, appartengono già alla storia e lo saranno in misura ancora maggiore per chi leggerà le tue parole tra un paio di anni?
MF: Ti senti un po’ di stare scommettendo sul futuro. Gli articoli di un giornale hanno la vita di una farfalla, quando va bene. A volte sopravvivono qualche ora al massimo. Sono una foto. Il libro ti impone uno sforzo di analisi e immaginazione molto più forte, sai che stai producendo qualcosa che deve resistere, durare, aiutare a capire. Non devi fotografare, ma dipingere.
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LM: Non sembra più possibile, oggi, guardare a ciò che avviene come da uno specchio veneziano, spiando, e senza essere visti, fingendo di non sapere. Sulle questioni rimaste aperte dopo la fine del conflitto nei Balcani ti soffermi a lungo, dedicando loro una parte sostanziosa del volume. Nel capitolo riguardante i paesi dell’ex Iugoslavia descrivi la specularità tra la loro storia recente e quella ucraina, e i rischi che tale prossimità di destini potrà dunque comportare un giorno. Quali saranno, in vista di una ricostruzione che si spera possa avere presto inizio, gli errori che la comunità internazionale dovrà evitare in Ucraina?
MF: Uno dei limiti del Tribunale per l’ex Jugoslavia fu il tempo, la lentezza. Le guerre nei Balcani sono relativamente recenti, ma quando per esempio l’ex generale croato Slobodan Praljak si suicidò all’Aja nel 2017 per protestare contro la sentenza di condanna, le sue azioni, quello che era successo, in qualche modo sembravano appartenere a un’altra epoca che ci toccava meno, ricordavamo poco. Anche per questo la potenza e le colpe appaiono sfumate dallo scorrere del tempo. Poi c’è un problema generale che riguarda il modo in cui sono strutturate le istituzioni internazionali, che sono state disegnate per superare la Guerra fredda, per accogliere la Russia, la quale per esempio ha un seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e nel mese di aprile ha anche la presidenza di quest’organo, che nasce per il mantenimento della pace e dell’armonia nel mondo. Oggi queste istituzioni appaiono come un fardello, non più come una garanzia di sicurezza, e bisognerà trovare il modo di riformarle per assicurare che il corso della giustizia funzioni.
LM: Nel volume nomini la Germania postbellica, quella oramai riunita, ma se c’è stato un confine in cui la cortina di ferro è stata più che mai tangibile, è proprio quello eretto in calcestruzzo armato, che dal 1961 e per quasi trent’anni ha fratturato, insieme a Berlino, il paese più a ovest gravitante intorno a Mosca. Eppure, i conti in sospeso della Germania odierna con il proprio passato, se si prendono in considerazione i pericolosi movimenti dichiaratamente neo-nazisti e la risonanza della “terza via” (per ragioni note, soprattutto nella ex RDT), non sono affatto chiusi…
MF: Chiudere i conti completamente non credo sia possibile, la storia rimane attaccata a tante cose, è storia di una nazione e anche storia di famiglia. La Germania, però, rispetto a tanti paesi che hanno vissuto sotto dittature brutali e che hanno commesso azioni atroci, nel dopoguerra ha avviato un ragionamento collettivo sulle proprie colpe e le responsabilità enormi che i tedeschi hanno avuto durante il nazismo. È un processo che coinvolge la politica, l’istruzione, la società e che difficilmente ha eguali altrove. Basta guardare all’Italia, dove le colpe del fascismo sono state sciacquate via in fretta. In Russia oggi è addirittura reato indagare sulle persecuzioni di Stalin, e associazioni come Memorial, che erano nate per ricostruire la memoria di quel periodo e ridare una storia alle vittime dei gulag, vengono chiuse. Anche la Polonia fa a botte con il suo passato. È traumatico assumersi le proprie responsabilità, ma credo che la Germania l’abbia fatto meglio di molto altri. In questa guerra il pericolo che sembrava arrivare da Berlino era piuttosto quello di una società che rifiutava l’idea di cambiamento, consapevole di dover smuovere dalle fondamenta i pilastri su cui aveva eretto parte della sua economia, come la dipendenza energetica dalla Russia. Ma anche il restio cancelliere Olaf Scholz si è mosso ed è stato il primo ad ammettere che siamo di fronte a una “Zeitenwende”, una svolta epocale.
Micol Flammini è giornalista del “Foglio”. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul “Foglio” cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.
2 Commenti. Nuovo commento
Bella intervista, complimenti Lidia Mafrica. Il libro mi sembra molto interessante. Grazie!
Che bella intervista! Complimenti ad entrambe! Vi ricordo con affetto dai tempi di Udine, sono felice di aver letto questa intervista e cercherò di leggere altro di entrambe! Un abbraccio, Tiffanj