Incontro con lo scrittore ceco Marek Šindelka
di Josef Sikola
Il 14 dicembre 2022 si è tenuto all’Università La Sapienza di Roma, presso il Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali (SEAI), nel corso del seminario di cinema «Eva Rosenbaumová» 2022, un incontro con lo scrittore e sceneggiatore ceco Marek Šindelka.
L’annuale seminario di cinema dedicato al cinema ceco e slovacco porta il nome della sua ideatrice Eva Rosenbaumová. La sceneggiatrice, traduttrice e lettrice di lingua slovacca alla Sapienza, scomparsa nel 2014, organizzava incontri dedicati alla letteratura e al cinema in collaborazione con scrittori e studiosi di letteratura e di cinema. La sua iniziativa, che vede collaborare il dipartimento SEAI della Sapienza, il Dipartimento di Estetica dell’Università Komenský di Bratislava e il Dipartimento di Studi cinematografici della Università Karlova di Praga, continua con successo a invitare autori di rilievo a dialogare con gli studenti dei corsi di lingua e cultura ceca e di lingua e cultura slovacca. Nel 2018 è stata ospite del seminario anche la regista polacca Agnieszka Holland, a cui la Sapienza ha conferito un dottorato honoris causa; nell’edizione 2021, il regista slovacco Martin Šulík. L’incontro di dicembre scorso è stato possibile grazie alla collaborazione del Centro Ceco di Milano e dell’Istituto slovacco di cultura di Roma.
Marek Šindelka è un autore giovane, nato nel 1984, ma il riconoscimento che il suo lavoro sta avendo indica un grande talento. Šindelka ha esordito nel 2005 con la raccolta di poesie Strychnin a jiné básně (Stricnina e altre poesie, Paseka, 2005), per la quale ha ottenuto il Premio Jiří Orten, che viene assegnato agli autori di prosa o di poesia di lingua ceca sotto i trent’anni. Un particolare lavoro che si è evoluto nel tempo e che rappresenta un connubio quasi onirico di prosa e di poesia è Chyba (L’errore, Pistorius & Olšanská, 2008; Odeon, 2019), il suo primo testo in prosa; con lo stesso titolo, è uscito anche in una versione a fumetti (Lipnik, 2011). Nel 2011 viene data alle stampe la raccolta di novelle Zůstaňte s námi (Restate con noi, Odeon, 2011) che si aggiudica il premio Magnesia Litera per la miglior prosa ceca. Nel 2014 esce Mapa Anny (Una mappa di Anna, Odeon, 2014), stando alle parole dello stesso scrittore «un romanzo o una raccolta di novelle, come si vuole», che ha suscitato un grande interesse tra i lettori, non solo cechi. Únava materiálu (Odeon, 2016), l’ultimo romanzo di Šindelka, anche questo vincitore del premio Magnesia Litera, è stato presentato ai lettori italiani con il titolo La fatica dei materiali (Keller, 2022), nella traduzione di Laura Angeloni. Nel 2018 Šindelka torna alla nona arte e, a quattro mani con Vojtěch Mašek, crea una graphic novel chiamata Svatá Barbora (Santa Barbara, Lipnik, 2018) ispirata a fatti realmente accaduti. Il libro vince nel 2018 il Premio Muriel dell’Accademia ceca del fumetto.
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Come detto sopra, Šindelka è anche uno sceneggiatore, ha collaborato alla scrittura delle sceneggiature di film come Zpráva o záchraně mrtvého (Relazione sul salvataggio del morto, CinemArt, 2022), Good Old Czechs (Pilot Film, 2022) e Okupace (Occupazione, Bontonfilm, 2021). Per quest’ultimo film ha ricevuto due premi per la miglior sceneggiatura: il Premio della critica cinematografica ceca e il più prestigioso premio cinematografico ceco, il Český lev (Leone ceco). La trama del film Okupace si potrebbe riassumere nel modo seguente:
Gli anni Settanta, un piccolo teatro di un paese boemo. Dopo la prima di una pièce dedicata all’eroe comunista Julius Fučík, gli attori si ritrovano al bar del teatro per festeggiare. La loro stanca festa viene interrotta da un ospite non invitato e la serata prende una piega del tutto inaspettata. Comincia una lunga notte che precipiterà quando gli attori dovranno competere con l’ufficiale sovietico in una gara di bevute di vodka e poi anche tra loro stessi, a chi è meno vigliacco e conformista. L’alcol dà coraggio e la superiorità numerica rafforza la determinazione, così gli attori allestiscono un finto processo all’intruso, il quale, sulla scia dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, si vede condannato a morte, ma a lottare per la propria vita saranno tutti i personaggi coinvolti.
La pellicola non ha avuto vita facile sin dall’inizio. Nel corso del seminario, l’autore ha rivelato che «l’intero sistema da superare per avere fondi per realizzare una sceneggiatura o un’idea è un processo molto faticoso e lungo. […] Noi ci siamo riusciti solo in parte». Perciò il film è stato girato con poche risorse. La maggior parte della troupe, inclusi gli attori, ci ha lavorato senza ricevere quasi senza nessun compenso. Non è andata bene nemmeno la distribuzione nei cinema. Il regista del film Michal Nohejl si è lamentato del fatto che il film non sia stato ammesso, malgrado le promesse, al concorso del Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary; e ciò probabilmente, è stato detto, perché il festival è finanziato da Gazprom. Okupace è quindi entrato nei cinema il 5 agosto 2021, nel periodo in cui le sale cinematografiche riaprivano dopo la lunga pausa causata dalla pandemia del Covid-19. Allora la concorrenza era molta, nelle sale uscivano anche dieci nuovi film al mese. A causa di ciò il film è passato quasi inosservato, tranne che per la critica. Grazie alle recensioni, prevalentemente molto positive, il film ha ottenuto una seconda chance dal pubblico quando, all’inizio dell’anno 2022, è entrato nelle piattaforme streaming. Le recensioni elogiano gli autori, sottolineando il fatto che con «buoni dialoghi e buoni attori si può realizzare un film eccellente anche senza un budget enorme». I critici concordano anche sul fatto che il modo in cui l’argomento dell’occupazione viene raccontato sia originale e attraente. Si parla anche delle qualità tecniche del film. Ad esempio dei colori, che rappresentano sicuramente un notevole cambiamento rispetto al grigiore e pallore con cui veniva di solito raccontata l’epoca della normalizzazione nei film cechi. Va ricordata la scelta coraggiosa di accompagnare la pellicola con musica moderna. Šindelka ha spiegato questa scelta come un modo per dire al pubblico che non si trattava soltanto di un film storico, ma anche di una rappresentazione di situazioni universali: di situazioni in cui le persone sono spinte al limite e sono costrette ad agire sotto un’immensa pressione, il che è sempre all’ordine del giorno. «Le persone sono ancora disposte a creare sistemi di oppressione. La musica è stata uno dei modi per dimostrare che non miravamo solo al periodo storico o solo ai traumi storici cechi».
Infatti, con la parola «attualità» il film è rinato ancora una volta. Poco dopo il suo inserimento nelle videoteche on demand, è scoppiata la guerra in Ucraina. Nel frattempo Okupace ha ottenuto 13 nomination al Český lev, lo stesso numero di nomination ottenuto anche dal film biografico su Emil Zátopek.
Scrive Rimsy a commento di Okupace: «Con l’avvicinarsi della fine appare una riflessione sull’occupazione sovietica inaspettatamente radicale. Tuttavia, il film non finisce qui, poiché, nel contesto ceco, anche un piccolo impeto di orgoglio nazionale deve essere soffocato sul nascere. La visione del regista Michal Nohejl si concentra sulla ristrutturazione della realtà, cercando di trovare una narrazione eroica che alla nostra storia manca disperatamente; e quando appare, tende a essere svalutata». Con un po’ di rammarico possiamo constatare che un simile processo è stato compiuto con la premiazione del film Zátopek (Falcon, 2021) come miglior film ceco a scapito di Okupace. Poiché, mentre la cerimonia della premiazione esprimeva il fermo sostegno all’Ucraina, contemporaneamente applaudiva al film vincitore, che loda un personaggio storico che non ha avuto la forza morale di rimanere fermo sulle posizioni prese al momento dell’invasione della Cecoslovacchia. Infatti, è vero che Zátopek si oppone agli eventi del ’68, e per questo sarà “punito”. Leggiamo su “Gariwo”: «Alle Olimpiadi di Città del Messico, quando i carri russi sono ancora nelle strade di Praga, Zátopek dichiara: “Abbiamo perso, ma il modo in cui è stato stroncato il nostro tentativo appartiene alla barbarie. Però non ho paura: io sono Zátopek, non avranno il coraggio di toccarmi…”. Al ritorno in patria, in effetti, Emil e sua moglie Dana Ingrova, anche lei medaglia d’oro a Helsinki nel giavellotto, non subiscono immediate ripercussioni. La normalizzazione sovietica, tuttavia, lì sommergerà in oltre venti anni di oblio. Emil viene espulso dal partito comunista cecoslovacco e dall’esercito. Mandato nelle miniere di uranio di Jachymov, alla frontiera tedesca, vive per sei anni in un magazzino prima di tornare nella capitale come spazzino”. Eppure già negli anni Settanta, scrive lo storico Jan Kalous egli «ha preso le distanze dal suo comportamento, nel biennio del ‘68 – ‘69, nelle parole e nei fatti». Al riguardo credo dunque che Zátopek – non come lo sportivo, ma come la persona – sia ancora abbastanza mitizzato in Italia. Parlando qui di eroismo e di conformismo, questa potrebbe essere un’occasione per accennare al fatto che non tutto è come sembra. Quei “venti anni di oblio” sono in realtà segnati dal suo appoggio pubblico alle politiche sovietiche, quindi anni discutibili.
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Marek Šindelka definisce sé stesso come un autore interessato al corpo. Ciò che emerge dai suoi testi è il corpo come una struttura con varie funzioni che a volte possono anche limitare gli esseri umani dell’epoca digitale. Il corpo è presente anche nel film Okupace, ma con una funzione metaforica. Discutendo con gli studenti romani, l’autore ha spiegato che il gruppo di teatranti che popola il suo film forma una sorta di corpo sociale. «Tra loro ci sono relazioni e tensioni, e alcune azioni e reazioni, che abbiamo voluto rappresentare come metafore dei movimenti sociali e delle tensioni nell’ambito cecoslovacco prima della Rivoluzione di velluto». I personaggi, alla perenne ricerca di un atto eroico, si comportano per lo più come dei veri codardi, ma a volte riescono a compiere un’azione quasi eroica che richiede tanto coraggio. «Mettendo i personaggi sotto pressione puoi forzarli ad evolvere, altrimenti la storia sarebbe davvero noiosa. Quelli sono i punti fondamentali della scrittura; quando hai un personaggio hai bisogno di un conflitto», sottolinea Šindelka, parlando dell’aspetto ambiguo dei suoi personaggi. I partecipanti alla discussione hanno evidenziato come uno degli elementi più interessanti e importanti sia l’ambientazione della storia, e cioè l’edificio di un piccolo teatro. L’autore ha spiegato che la scelta di tale ambientazione è stata una vera fortuna. Il teatro qui serve, infatti, anche come passaggio dal mondo reale a una sorta di dimensione magica, distaccata dal tempo e dalla storia, dove tutto in qualche modo si confonde in un vortice di cose. La parte superiore dell’edificio rappresenta la coscienza, il livello cosciente della storia; gli scantinati del teatro invece possono essere visti come livello subconscio dell’intera faccenda, «perché, all’inizio, quelli che sono in pericolo, quelli che sono occupati sono gli attori; ma poi si scopre che sono loro il vero occupante aggressivo». Le cose sporche e brutte succedono nel subconscio: lo scantinato è il posto in cui gli attori si trasformano in mostri: come il Minotauro nel labirinto, citato nel film.
Un altro tema interessante della discussione riguarda il personaggio di Milada. La scelta di avere un unico personaggio femminile nel film ha suscitato alcune domande da parte degli studenti più attenti alle questioni di genere. Šindelka ha ammesso di non essere del tutto contento di come è stato scritto il personaggio. «Se avessimo la possibilità di riscrivere qualcosa, probabilmente sosterremmo di più questo personaggio, perché è piuttosto passivo. Milada viene spostata da un posto all’altro da personaggi maschili, e si limita a osservare. Ecco perché l’ho definita l’occhio del film». E infatti lei osserva, come osserviamo noi. Alla fine del film Milada lascia la scena «come un essere umano», senza essersi trasformata in un mostro; è scossa dai fatti ai quali ha assistito nel teatro e riflette su quanto accaduto, come noi spettatori su quello che abbiamo appena visto nel film.
Okupace approccia la questione del passato cecoslovacco con l’ottica e l’atteggiamento di una nuova generazione, senza pathos. «Non volevamo ritrarre il movimento clandestino presentando la gente intorno a Havel, i veri eroi; volevamo piuttosto raccontare i conformisti, che formavano la maggior parte della società». Tutto questo viene narrato con humour nero e un sarcasmo che sfocia nella tipica autoironia ceca, trovando forse una spiegazione nella curiosa comparazione dell’autore: «Penso che in realtà sia più ceco, e forse questo è controverso, comportarsi come degli Hobbit: […] aspettiamo di vedere quale sarà il risultato per sapere cosa fare».
La discussione con Marek Šindelka ha stimolato anche altre riflessioni: per esempio sullo stato della memoria in Repubblica Ceca e in Slovacchia, e sul dibattito pubblico. Su questo tema sono intervenuti il direttore generale dell’Istituto slovacco di cinematografia Peter Dubecký e il critico Martin Kaňuch, del medesimo Istituto. Entrambi gli esperti hanno sottolineato l’importanza dell’immagine come una fonte di informazioni arricchita da un intenso elemento emozionale. La professoressa Libuše Heczková dell’Università Karlova ha invece sollevato la questione di come viene percepito il cinema ceco contemporaneo all’estero.
Al seminario, preparato dagli studenti e dai dottorandi della Sapienza sotto la guida della professoressa Annalisa Cosentino e della dottoressa Zuzana Němčíková, hanno partecipato anche la direttrice del dipartimento di studi cinematografici dell’Università Karlova Kateřina Svatoňová; il professor Peter Michalovič della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università Komenský di Bratislava; Ľubica Mikušová e Monika Carta dell’Istituto slovacco di cultura di Roma.
L’edizione 2022 del seminario “Eva Rosenbaumová”, oltre aver esplorato un coloratissimo film sui tempi bui, ha quindi aperto anche alcuni nuovi argomenti, stimolanti per la riflessione sul cinema ceco e slovacco.
Immagine: Čierne dni (Black days), regia di Ladislav Kudelka, 1968.
Per approfondire. Trascrizione dei passaggi salienti del seminario
Angela Mondillo – La tensione tra i personaggi, che nasce da un trambusto generale, viene spesso risolta attraverso l’uso di una satira che sfocia nel grottesco, che come sappiamo va oltre i confini della realtà. Dal punto di vista narrativo, lei pensa che questo metodo espressivo le abbia facilitato in qualche modo il processo di scrittura della sceneggiatura? Potrebbe descrivere il suo metodo di scrittura?
Marek Šindelka – Il coautore della sceneggiatura Vojtěch Mašek e io avevamo intenzione di fare il film in poche settimane durante l’estate, perché non avevamo soldi per farlo diversamente. Abbiamo quindi cercato il modo più semplice possibile. Avevamo un budget limitato, che ci limitava. Quindi, abbiamo deciso di ambientare la storia in un solo luogo, in una sola notte e con un cast limitato; questa decisione ci ha aiutato molto nel lavoro sulla sceneggiatura. Sapevamo di voler realizzare una commedia nera, diciamo, con un passaggio molto drammatico nel mezzo del testo in cui gli attori decidono di punire l’ufficiale russo. L’aspetto satirico si è realizzato quasi spontaneamente durante il processo di scrittura: ci siamo resi conto che ovviamente è impossibile realizzare un film senza soldi, e che eravamo stati ingenui, perché, a volte, in Repubblica Ceca il sistema per chiedere un finanziamento può essere molto difficile, faticoso e lungo. Abbiamo cercato di evitarlo, ma ci siamo riusciti solo in parte perché, alla fine, avevamo comunque bisogno di ottenere dei finanziamenti da qualche parte. Dopo averli ricevuti, avevamo bisogno di rifinire la sceneggiatura e ne abbiamo realizzato un’altra versione. Questa è stata la genesi del progetto.
Josef Šikola – Nel film ci sono alcuni dettagli legati al corpo, o più precisamente, al contatto: pensiamo a come viene toccato il personaggio di Milada. Ci sono differenze tra come la tocca il regista e come lo fa il soldato, per esempio. Penso che anche il linguaggio del corpo sia molto enfatizzato, il che, credo, sia legato alla sua poetica. È soddisfatto di come il linguaggio cinematografico riesce a rappresentare il corpo? O vede ancora altre possibilità per trasferire o rappresentare la fisicità descritta nella sceneggiatura?
MŠ – Nei miei libri e anche nelle sceneggiature esamino il corpo: il corpo umano come una struttura, come funziona, come limita gli esseri umani, ad esempio come potrebbe rappresentare un peso per le persone che vivono nel mondo contemporaneo. Ciò che intendo con questo è che tutti noi viviamo più o meno digitalmente. E il corpo potrebbe essere quasi un peso, perché invecchia e poi in futuro morirà, il che è la causa di molte ansie. Su questi temi mi sono concentrato nei miei libri e nei miei scritti. Il motivo del corpo è presente nel film, ma su un piano diverso. Ci interessava sapere come il gruppo di attori potesse formare una sorta di corpo sociale. In un certo senso gli attori qui rappresentano una società cecoslovacca in miniatura. Tra loro ci sono relazioni e tensioni, e alcune azioni e reazioni che abbiamo voluto rappresentare come metafore di movimenti sociali e tensioni in Cecoslovacchia prima della Rivoluzione di Velluto del 1989. Ci sono le esperienze traumatiche per la nazione ceca, e cioè l’occupazione nazista e l’occupazione russa. Nel film abbiamo rappresentato quegli eventi in una sorta di miniatura. Dunque il corpo in questo caso è inteso più come un corpo sociale. Sicuramente c’è molta violenza, qualche contatto scomodo tra gli attori. C’è il corpo dell’ufficiale russo, dell’intruso, che si comporta come un mostro in mezzo agli attori, e che è anche l’elemento scatenante dell’intera azione.
Maria Teresa Cutuli – Nel film viene presentato un particolare approccio all’eroismo: i codardi si trasformano in eroi e gli eroi in codardi. Perché ha fatto questa drastica scelta invece di dare ai protagonisti un ruolo specifico fin dall’inizio?
MŠ – La questione dell’eroismo è stato uno dei nostri argomenti principali fin dall’inizio. L’eroismo è un argomento doloroso nella storia cecoslovacca, penso che a noi cechi piacciano gli eroi, e li cerchiamo sempre nella nostra storia. Nella società c’è ancora la sensazione quasi palpabile e molto dolorosa che nel passato abbiamo perso l’opportunità di comportarci come eroi; soprattutto nel 1938, quando eravamo pronti a combattere i nazisti prima che i nostri alleati, Francia e Inghilterra, ci tradissero. Il paese fu quindi trasformato in un Protettorato, e questa è stata vista da molti storici come una grande sconfitta per i cechi e per la loro autostima. Volevamo avere questo tema nel film e nei personaggi in una sorta di modo omeopatico. Quasi tutti i personaggi a un certo punto della trama si comportano da eroi e in un altro punto si comportano da veri codardi. Questo strano cambio di ruolo è stato per noi molto divertente perché ci ha permesso di trovare i modi per forzare i personaggi a evolversi, perché mettendo i personaggi sotto pressione puoi forzarli a evolversi, altrimenti la storia sarebbe davvero noiosa. Questi sono momenti fondamentali della scrittura: quando hai un personaggio hai bisogno di un conflitto, altrimenti è statico. La cosa è anche molto triste perché significa che tutti noi abbiamo bisogno di conflitti, che ne dipendiamo in qualche modo.
Francesco Tarquini – Il teatro è senza dubbio uno dei protagonisti del film, ambientato quasi interamente in un unico luogo, cioè nel bar del teatro. Il teatro è anche il luogo dove tutto è permesso: per esempio Kraus non deve avere paura di indossare la divisa perché “è a teatro”. Il teatro sembra essere un rifugio dal mondo esterno e dalla quotidianità. È possibile considerare questo film come l’adattamento di un’opera teatrale? I protagonisti si rendono conto della loro appartenenza a questa dimensione separata?
In due casi diversi possiamo assistere a uno spettacolo nello spettacolo: il primo è proprio all’inizio del film, quando alcuni dei personaggi principali recitano la pièce su Julius Fučík, l’eroe comunista; il secondo caso riguarda il momento in cui gli attori si travestono tutti da soldati nazisti per intimidire l’ufficiale russo. Possiamo considerare questi due casi come metateatro? Qual è stato il motivo principale di questa scelta?
MŠ – Il teatro non è stato presente nella sceneggiatura fin dall’inizio. Abbiamo deciso di ambientare tutto in un teatro dopo aver scartato varie altre idee. Tutta la storia nasce da una semplicissima leggenda metropolitana raccontata a Vojtěch Mašek da un suo amico. La storia narra che durante l’occupazione nel 1968 due tramp (e cioè persone che si atteggiavano come cowboy americani avventurandosi nei boschi, un passatempo di molti durante la normalizzazione) erano così arrabbiati con i russi che decisero di rapire un soldato in cui si erano imbattuti. Decisero di organizzare un processo al soldato in un seminterrato in campagna. Indossarono le divise naziste e, durante il processo, si resero conto che non potevano lasciarlo andare. Così, decisero di giustiziarlo; e lo fecero davvero, poi lo seppellirono sotto un mucchio di carbone. Questa era la storia originale, non so se sia accaduta davvero, ma è possibile. Sono rimasto colpito di quanto fosse brutta, sporca e crudele. Però è una situazione intrinsecamente teatrale. Quindi abbiamo semplicemente deciso di sottolineare il dramma e la teatralità già presenti in essa.
Il teatro serve anche come passaggio dal mondo reale a una sorta di dimensione magica, a un luogo irreale, distaccato dal tempo e dalla storia quotidiana; dove tutto in qualche modo si confonde in un vortice di cose. Per noi era importante anche la struttura del teatro, cosa evidente nel film, perché vediamo la parte superiore dell’edificio come una sorta di coscienza. Poi ci sono gli scantinati che vediamo invece come un livello subconscio dell’intera faccenda, dove succedono le cose brutte, come se quello fosse il posto in cui gli attori si trasformano in mostri. Anche questo è forse collegato alla domanda sull’eroismo, perché all’inizio ad essere in pericolo, ad essere occupati sono gli attori; ma poi si scopre che sono loro il vero occupante e aggressore. Questo ci ha permesso di utilizzare il teatro come genere artistico performativo con uno spostamento di ruoli. È stata una grande fortuna scoprire come combinare tutte queste cose insieme in modo semplice.
Murillo Missaci – Mentre guardavo il film, ho cominciato a interpretare il bar del teatro, “invaso” dal comandante sovietico, come un microcosmo della Cecoslovacchia, in cui i presenti dovevano abituarsi alla scomoda presenza di un potente tiranno ubriaco. Dunque le persone hanno dovuto trovare un modo per dimostrare il loro dissenso, vuoi in modo violento vuoi in modo pacifico. A mio avviso, la sistematica resistenza pacifica proposta dagli attori corrisponde alla resistenza del movimento dissidente cecoslovacco durante la normalizzazione, ispirato per esempio all’azione di giganti come Václav Havel e Jan Patočka. È corretta questa interpretazione? L’ambiente del film può davvero essere visto come una “miniatura” della situazione cecoslovacca di allora?
MŠ – Sì. Penso che abbia ragione. Non volevamo ritrarre il movimento clandestino presentando la gente intorno a Havel, i veri eroi; volevamo piuttosto raccontare i conformisti, che formavano la maggior parte della società. Havel e i suoi amici facevano cose incredibili, non erano pochi, ma rispetto all’intera società erano un gruppo di persone in enorme inferiorità numerica. La società durante il regime comunista era più o meno conformista, e questi sono stati i personaggi che abbiamo voluto rappresentare nel film, perché penso che in realtà sia più ceco, e forse questo è controverso, comportarsi come degli Hobbit, o qualcosa del genere: aspettiamo il risultato in Ungheria e Polonia per sapere cosa fare. Siamo stati l’ultimo paese, e lo stesso vale per la Romania, a protestare contro il regime comunista nel 1989. Era praticamente finita, e improvvisamente abbiamo iniziato a ribellarci. Non vorrei denigrare nessuno, allora ero un ragazzino e ammiro tutte le persone che si sono battute. Tuttavia, penso che questa caratteristica rappresenti in qualche modo il carattere dei cechi. All’inizio non volevamo ambientare il film durante il regime comunista, l’idea era di situarlo nel presente: non ci sarebbe stato un ufficiale russo, ma un poliziotto ubriaco, e gli attori sarebbero stati in un teatro di oggi, ma ci siamo resi conto che il racconto non sarebbe stato vivace, probabilmente non avremmo potuto usare in modo efficace gli accenni al nazismo. In ogni modo ha ragione, si tratta di un microcosmo che rappresenta un campione di una società, chiuso in un ambiente di laboratorio che viene osservato, e l’osservatore è Milada, la ragazza.
Veronika Pololaniková – Una parte significativa del film è rappresentata dalla musica che ha un forte effetto sul pubblico. Mi piacerebbe sapere perché avete deciso di utilizzare uno stile musicale con radici americane in un film che parla del periodo della normalizzazione. Volevate sottolineare l’atmosfera cupa o qual è stata la motivazione che vi ha spinto a scegliere questo tipo di musica?
MŠ – Prima ho detto che non volevamo fare solo un film storico, ma ritrarre situazioni universali, situazioni in cui le persone sono spinte fino ai loro limiti e si trovano costrette ad agire anche sotto un’immensa pressione. Volevamo dimostrare che tutto ciò non appartiene al passato, è sempre presente negli esseri umani. Non dipende dall’epoca o dal periodo storico. Le persone sono ancora disposte a creare sistemi di oppressione. E la musica è stata uno dei modi per dimostrare che non miravamo solo al periodo storico o solo ai traumi storici cechi. La musica è stata eseguita dalla meravigliosa band ceca Kill the Dandies!, i loro testi sono in inglese e penso che abbiano contribuito moltissimo a creare l’atmosfera del film.
Rosa Manigrasso – Le ultime scene del film rappresentano presumibilmente il comune sentimento di ribellione contro l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Mentre gli attori esultano, riappare il soldato russo e la loro resistenza si interrompe; si rendono conto che tutto ciò che stavano proclamando perde senso. Come descriverebbe quel momento? Può essere questa una prova che l’essere umano è spinto a ribellarsi solo quando la disperazione lo comanda, e cioè che non è l’eroismo a spingerlo?
MŠ – Come abbiamo detto prima, tutti i nostri personaggi sono più o meno conformisti e quello a cui lei si riferisce è il punto di rottura del del regista, che si sta ancora muovendo su un filo sottile tra la cultura ufficiale e non. Si menziona il fatto che nel passato aveva fatto con coraggio teatro d’avanguardia, ma allo stato attuale delle cose si trova in questo teatro di una piccola città a fare adattamenti scadenti, come le memorie di Julius Fučík, l’eroe nazionale dei comunisti. Dopo un’immensa pressione, lui all’improvviso crolla e scrive questo manifesto, e lo abbiamo stilizzato come un testo di una sezione dell’Armata Rossa, che avrebbe giustiziato le persone punendole con violenza. Da una parte si tratta solo di un tentativo di fuga da una situazione sempre più disperata. Quando l’ufficiale russo rientra in scena, tutto viene subito dimenticato e loro si sentono sollevati: lo abbracciano, come se fossero tutti felici di avere un occupante. Ma così prendiamo in giro anche la mentalità ceca. Abbiamo voluto mostrare che forse una piccola parte della società desiderava gli occupanti e le persone che ci governavano. Stiamo vivendo in un mondo che, improvvisamente, dopo la caduta della cortina di ferro, è diventato troppo colorato, troppo grande e troppo strano, soprattutto per la vecchia generazione. Io lo capisco perfettamente, perché la generazione dei miei nonni di solito non parla le lingue straniere. Quello che accade ora nel mondo li lascia perplessi. Ed è per questo che metà della società ceca, probabilmente, voterebbe alle elezioni cose terribili. Per me è frustrante, ma cerco di capirlo. E con i miei colleghi abbiamo cercato di inserire queste riflessioni nel film, per provocare magari delle reazioni. Poiché penso che sia proprio quello che deve fare l’arte: essere una sorta di anticorpo della società, un antidoto contro certe tendenze.
Marta Belia – Credo che il ruolo della metafora in questo film sia molto forte. Possiamo menzionare ad esempio il fumo che avvolge i personaggi, i cui tratti caratteriali vengono gradualmente rivelati; il bar del teatro che rappresenta la nazione ceca con i suoi dispiaceri; il soldato russo di cui gli attori non riescono a sbarazzarsi perché rappresenta il potere. Ci sono alcune metafore particolari su cui vorrebbe attirare la nostra attenzione e invitarci a riflettere?
MŠ – Nel sottotesto abbiamo cercato di creare un labirinto. Mentre l’ufficiale russo cerca il bagno, vaga per i corridoi dello scantinato indossando la testa del Minotauro. Volevamo che questa parte del film rappresentasse l’uccisione del mostro. All’improvviso, mentre gli oppressi cercano di uccidere il mostro, vengono infettati dalla sua mostruosità: diventano giudici e aguzzini e, in qualche modo, diventato tutti anche vittime.
Angela Mondillo – Nella scena in cui il regista dice a Kraus di togliersi l’uniforme, gli dice anche di smetterla con lo “švejkování”, che nei sottotitoli è stato tradotto come “smettila di agitarti” anche se questo concetto ha un significato più esteso, derivato da Švejk, il nome del protagonista del celebre romanzo di Jaroslav Hašek. Come spiegherebbe l’uso del termine nel film? In che misura questo atteggiamento ha influenzato il modo in cui le persone si sono comportate durante il periodo della normalizzazione? Come viene percepito oggi questo modo di agire?
MŠ – È un termine molto tipico, quando qualcuno si comporta come Švejk significa che fa il doppio gioco, che è un cinico, questo concetto comporta anche una dose di humour nero. Lei ha menzionato una cosa importante: una delle strategie, direi, più efficaci per la gente durante il regime comunista. Sopravvivere a quei giorni cupi era possibile grazie allo švejkování.
Penso che sia impossibile estinguere questo tipo di pensiero e questo tipo di umorismo dal carattere dei cechi. Penso che non possiamo liberarcene in alcun modo, si può vedere in tutti i settori della società. Ho letto un’intervista a un economista, se ricordo bene, cui è stato chiesto “cosa avrebbe raccomandato al popolo ceco per crescere davvero, per diventare un membro della società europea a tutti gli effetti”. E lui ha risposto: “Prenderei una pistola e ucciderei Švejk”. Per me è una risposta precisa. Il film è anche un dialogo con queste strategie e con questi atteggiamenti nella società. Ma amo il libro (Le avventure del bravo soldato Švejk) e amo Hašek. Esiste anche un termine coniato da Heydrich, il Reichprotektor nazista ucciso dai coraggiosi paracadutisti cechi, che ha detto che “i cechi sono bestie che ridono”, è un termine terribile. Ma in qualche modo mi piace perché, a volte, purtroppo, si adatta perfettamente.
Alessia Febbraro – Perché ha scelto di avere un solo personaggio femminile tra i protagonisti? Milada sembra essere l’unico personaggio è sia razionale sia sensibile. Si illude di essere una persona che non viene tormentata dall’occupazione ma al contrario reagisce? Oppure è, come gli altri personaggi, parte di uno spettacolo più grande, dove ognuno recita la sua parte?
MŠ – Forse abbiamo voluto avere almeno un personaggio che alla fine sarebbe rimasto un essere umano. Tutti i personaggi maschili subiscono trasformazioni così terribili che ciò che rimane è solo una terribile sbornia morale. Agli occhi del regista Milada potrebbe essere una spia del partito, quindi non è un personaggio tanto facile. Per noi lei è stata l’àncora della normalità, una persona incorruttibile. Se avessimo la possibilità di riscrivere qualcosa, probabilmente sosterremmo di più questo personaggio, perché è piuttosto passivo. Milada viene spostata da un posto all’altro dai personaggi maschili, e si limita a osservare. Ecco perché l’ho definita l’occhio del film. Ma, naturalmente, ha un ruolo centrale in alcune fasi: viene molestata dall’ufficiale russo, poi gli altri vogliono mandarla dall’ufficiale russo per approfittare di lei. So che non è un personaggio scritto benissimo. Lo rifarei diversamente se potessi, tuttavia una sola donna in una società maschile diventa il punto di innesco di tanti conflitti.
Josef Šikola – L’attrice Antonie Formanová si trovava praticamente nella stessa posizione del suo personaggio nella scena al bar, quando le viene chiesto se si sente a disagio nel vedere l’uniforme nazista. Sappiamo che anche i suoi bis-bisnonni persero la vita in un campo di concentramento. Quindi si offre una sorta di analogia e forse anche un messaggio: che tutti noi abbiamo nelle nostre storie familiari un dolore, e questo dolore non ci obbliga a odiare coloro che ci hanno ferito in passato se riusciamo a distinguere la storia dal presente tanto quanto il teatro dalla realtà. È un incoraggiamento a vedere noi stessi in un’altra maniera, e non esclusivamente come le vittime?
MŠ – Non direi che questo sia stato il motivo per cui Antonie Formanová ha ottenuto il ruolo. È stata una decisione del regista. Lui voleva un’attrice specifica per questo ruolo, e anch’io penso che Antonie Formanová sia perfetta. Interessante è il ruolo dell’ufficiale russo, perché inizialmente è stato offerto a un altro attore, Aleksej Serebrjakov, il protagonista di Leviathan di Andrej Zvjagincev. È un attore russo, e ha rifiutato il ruolo perché sentiva che avrebbe ritratto i russi in una cattiva luce, cosa strana per noi perché Leviathan è un film anti-Putiniano e anche anticlericale. Siamo rimasti un po’ sorpresi, ma poi abbiamo offerto il ruolo all’attore ucraino Aleksej Gorbunov, che interpreta l’ufficiale russo con enorme entusiasmo. Siamo rimasti affascinati dalla sua interpretazione, da quanto agghiacciante sia stata la sua performance. Ed è stato anche molto divertente perché quando è arrivato per le riprese, già all’aeroporto era nel ruolo, stava già recitando, e tutta la troupe aveva paura di lui. Il film ha ricevuto alcuni premi al Český Lev, il più importante premio cinematografico ceco, e nel momento della premiazione Gorbunov stava combattendo i russi in Ucraina; è un uomo coraggioso.
Tornando alla seconda parte della domanda: penso che questa vittimizzazione, questa bassa autostima profondamente radicata nei cechi, e cioè che siamo sempre noi le vittime e il mondo agisce su di noi senza consultarci. Penso che sia molto difficile sbarazzarsi di questi pensieri, come ho detto, molti storici ne vedono le radici all’inizio della seconda guerra mondiale, quando siamo diventati il Protettorato, altre persone le vedono nell’occupazione da parte dei russi alla quale non abbiamo saputo reagire. Abbiamo attraversato molte cose traumatiche e ci vorrà del tempo per guarirle. Penso che la nostra generazione abbia un approccio migliore a queste problematiche, ma dipende dall’intera società quanto tempo ci vorrà per riprendersi. Ci vorrà del tempo.
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