Da Praga le riflessioni di Bohumil Doležal
di Marta Belia
Immagine di copertina: fotogramma da “Sogni al campo” di Mara Cerri e Magda Guidi, dettaglio.
Allo scopo di sondare quale sia il punto di vista del praghese Bohumil Doležal sulla questione della guerra della Russia in Ucraina è utile esaminare in dettaglio una serie di articoli da lui pubblicati sul blog Bubínek Revolveru. Il blog fornisce ai lettori “una dose regolare di annotazioni sui temi d’attualità” ed è legato alla rivista letteraria Revolver Revue che si autodefinisce “rivista di autodifesa culturale”.
Perché Bohumil Doležal? I suoi articoli sono indubbiamente tra i più interessanti usciti sulla stampa ceca dedicati a questa guerra. Classe 1940, praghese di nascita, Doležal è un critico letterario, politico e politologo di grande fama. La sua vita e la sua carriera sono state segnate dalle dure conseguenze dell’instaurazione del regime totalitario comunista nell’agosto 1968 con l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe di cinque paesi del Patto di Varsavia (Unione Sovietica, Germania, Polonia, Ungheria e Bulgaria). Nel 1964 diviene collaboratore e membro del comitato di redazione della rivista Tvář istituita nello stesso anno dall’Unione degli scrittori cecoslovacchi come piattaforma per la giovane generazione di autori “ufficiali” ma trasformatasi ben presto in luogo di ritrovo di alcuni intellettuali indipendenti i quali tentavano di restituire alla coscienza culturale scrittori stranieri e nazionali occultati per motivi politici battendosi instancabilmente contro la censura. Tvář era l’unico periodico non marxista e il suo approccio apertamente critico non gli avrebbe permesso di sopravvivere a lungo: l’anno successivo infatti fu chiuso tramite un provvedimento amministrativo. Durante il disgelo politico della Primavera di Praga nel gennaio 1968, pochi mesi prima dell’invasione, la rivista fu riaperta con successo e Doležal vi lavorava nuovamente come editore e critico. Ma la censura si faceva sempre più rigida e naturalmente anche quella volta la rivista ebbe vita breve: fu chiusa e vietata definitivamente nel 1969 dalle autorità comuniste della normalizzazione.
Nel 1977 Bohumil Doležal firma la Charta 77, considerata la più importante iniziativa del dissenso in Cecoslovacchia, e attira così l’attenzione della Sicurezza di Stato. Egli inizia dunque a essere perseguitato a causa della Charta, della quale diviene poi uno dei suoi più convinti oppositori giungendo alla conclusione che si trattasse di un documento irrealistico: si appellava alla difesa dei diritti umani nonostante il regime comunista fosse costruito proprio sulla soppressione dei diritti umani fondamentali e per di più si asteneva dal proporre un’alternativa valida. (Per una galleria di ritratti della variegata opposizione cecoslovacca vedi).
Nel novembre 1989 diviene vicepresidente del partito Demokratická iniciativa (Iniziativa Democratica). Nel 1990, poco dopo la caduta del regime (avvenuta nel 1989 con la Rivoluzione di Velluto), Doležal viene eletto deputato parlamentare per il Partito liberal democratico in cui il Demokratická iniciativa si era trasformato. Nel 1992 passa al Partito civico democratico, dove diviene capo consigliere del primo ministro Václav Klaus fino al 1993. Dal 1993 al 2002 Bohumil Doležal tiene conferenze sul pensiero politico ceco e ungherese presso la Facoltà di Scienze sociali della Karlova Univerzita di Praga e lavora anche come giornalista indipendente e commentatore politico. Dal 2000 pubblica il blog di politica Události. Nel 2011 e nel 2014 riceve il premio della rivista letteraria Revolver Revue. Pubblica articoli di argomento politico su giornali e riviste ceche, slovacche, tedesche, polacche e ungheresi; ad oggi è uno dei più singolari commentatori della vita pubblica ceca.
Da quando è scoppiata la guerra russo-ucraina Doležal ha iniziato a scrivere sull’argomento per il settimanale Reflex, pubblicando il primo articolo il 27 febbraio 2022. Questa collaborazione si è però interrotta bruscamente a causa di un articolo incriminato che, come spiega lo stesso Doležal, il settimanale ha rifiutato di pubblicare e che è stato poi pubblicato la settimana successiva sul blog Bubínek Revolveru, dando inizio alla nuova collaborazione che dura ancora oggi.
Nell’articolo incriminato, intitolato L’invasione dell’Ucraina: qual è la miseria e la colpa della Russia?, Bohumil Doležal risponde alle riflessioni del caporedattore del quotidiano Forum24 Pavel Šafr sull’opposizione russa anti-Putin. Šafr, nel chiedersi perché lo Stato russo si sia abbassato a un livello morale così terrificante, fa notare come la responsabilità non sia solo dei vertici e afferma che “migliaia di funzionari, soldati e operatori dei media russi partecipano ai crimini colossali di Putin. E milioni di altri russi approvano quei crimini”. È proprio su questo punto che Doležal invita a ragionare, ricordando come in realtà in Russia si siano svolte molte manifestazioni anti-Putin che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone. Poi paragona queste manifestazioni a quelle che ebbero luogo in Cecoslovacchia negli anni 1987-1988. La differenza è che allora il regime cecoslovacco si stava già sgretolando, mentre oggi in Russia ancora “nulla si sta sgretolando”. Dunque, viste le circostanze, anche poche migliaia di persone sono tante. Di conseguenza, Doležal esorta a “diffidare da giudizi del tipo ci provano, ma sono pochi”. Successivamente fa menzione dei frequenti paragoni tra la situazione nella Russia di oggi e la situazione nella Germania nazista. Anche in questo caso, osserva Doležal, “durante la Seconda guerra mondiale, in mezzo a un crudele terrore, c’erano persone in Germania che non esitavano a sacrificare la propria vita nella lotta contro il nazismo. Certo, erano pochi. Ma la quantificazione meccanica non basta, in quelle circostanze le vite sacrificate valgono milioni”. Ciò che l’autore mostra, dunque, è che i giudizi sulla degradazione morale russa o tedesca hanno il loro rovescio. Nel suo tipico stile estremamente diretto, la sua conclusione è che “chi li tira fuori [questi giudizi] dovrebbe prendersi un attimo per guardarsi allo specchio. Non per chiudere la bocca, ma solo per non esagerare troppo in un momento in cui si viene indotti direttamente all’esagerazione isterica”. Risuona con forza l’avvertimento finale: “non dobbiamo tacere e non dobbiamo avere paura. Ma allo stesso tempo dobbiamo essere onesti”.
Il 23 marzo 2022 Doležal ha pubblicato un articolo in cui si interroga sul ruolo delle Nazioni Unite in relazione a quanto accade in Ucraina. L’autore inizia col ricordare come il 26 febbraio 2022 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non abbia approvato una proposta di risoluzione, avanzata da Usa e Albania, contro l’invasione russa dell’Ucraina a causa del mancato consenso necessario. Infatti, nell’articolo 27, paragrafo 3 della Carta delle Nazioni Unite, che parla di voto in seno al Consiglio di Sicurezza, si afferma che “le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di nove Membri, nel quale siano compresi i voti dei Membri permanenti”. Pertanto, in questo caso, essendo la Russia uno dei Membri permanenti, sarebbe stato impossibile ottenere il consenso. Doležal sottolinea come in generale l’ONU molto spesso non possa raggiungere il consenso proprio a causa delle divergenze tra i Membri permanenti che, oltre alla Russia, sono Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti. Per affrontare la questione è stata convocata una sessione straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la quale ha approvato una risoluzione, proposta dai paesi dell’UE insieme all’Ucraina, intitolata Aggressione contro l’Ucraina. La risoluzione chiede alla Russia di cessare immediatamente l’uso della forza in Ucraina e di astenersi da ogni ulteriore minaccia illegale o uso della forza contro qualsiasi Membro delle Nazioni Unite. Si tratta, tuttavia, di una semplice raccomandazione non vincolante.
Il caso dell’Ucraina ben dimostra, per Doležal, come nelle questioni essenziali, nelle situazioni di crisi politica, l’ONU sia impotente. Un potente Stato membro delle Nazioni Unite invade militarmente un altro significativamente più debole ma l’ONU può aiutare il più debole solo se uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza non pone il proprio veto agli aiuti. È quello che purtroppo è avvenuto per l’Ucraina perché uno dei cinque (la Russia) è il suo aggressore. Le ragioni di questa debolezza dell’ONU sono storiche e vanno cercate nel cataclisma della Seconda guerra mondiale, quando gli Stati democratici, per sconfiggere Hitler, unirono le proprie forze a quelle dell’URSS la quale, dall’estate del 1941, venne invasa dal III Reich. Quest’alleanza avrebbe dovuto essere utilitaristica e temporanea ma così non fu. A fine guerra gli Alleati occidentali, con la creazione delle Nazioni Unite, cercarono di dar vita a un ordine mondiale basato su libertà e democrazia. Tuttavia, ecco la realtà che ne è emersa: “non una comunità di Stati democratici del mondo, nati dalla vittoria del bene sul male, ma uno strano agglomerato di paesi”. Un “agglomerato” che Doležal paragona al romanzo di Orwell La fattoria degli animali. Il suo ragionamento prosegue analizzando il ruolo della NATO e dell’Unione Europea. Né l’una né l’altra – sottolinea – si sono poste il compito primario di organizzare la giustizia nel mondo, ma solo di difendere gli interessi specifici dei paesi associati. Pertanto è solo a difesa dei propri interessi, per non dover pagare loro stessi, che di tanto in tanto aiutano la libertà e la democrazia nei paesi che non fanno parte della NATO e/o dell’UE. In questa prospettiva l’autore praghese torna sul punto nevralgico dell’articolo, il ruolo delle Nazioni Unite. Nota: “alcuni documenti vincolanti sui diritti umani contengono anche regole che alcuni paesi non possono rispettare e altri non intendono nemmeno rispettare”. E cita, infine, una scena di un film americano sul generale George S. Patton nel quale quest’ultimo viene invitato dal collega russo a un brindisi di fraternità: i due si danno del bastardo a vicenda e sono felici di brindare tra “figli di puttana”. Doležal spiega di aver riproposto questo aneddoto “solo come incentivo a pensare all’ONU con spirito di modestia, sobrietà e realismo”. E conclude il suo saggio con una tagliente frase dal tono sarcastico che lascia il segno: “solo una nota a margine: certo, la Russia di oggi è diversa da quella di Stalin in molti modi. L’unica analogia è che nessun Seid umschlungen, Millionen (Abbracciatevi, O milioni di persone) è appropriato”.
Fotogramma da “My Sunny Maad” di Michaela Pavlátová (2021).
In occasione della celebrazione della Giornata della Vittoria (8-9 maggio 1945), Doležal ha scritto un lungo articolo Ai margini del vittorioso nove maggio, pubblicato in due parti. Nella prima torna innanzitutto a riflettere sulle conseguenze dei conflitti mondiali e a ripercorrere le ragioni che hanno portato alla nascita di organizzazioni internazionali quali l’ONU, l’UE e la NATO. Se la Storia permette di comprendere il passato e dovrebbe servire da monito nel presente per non ripetere gli stessi errori, Doležal sottolinea quanto sia importante parlare di Storia in questo specifico momento di drammatico snodo “nel quale la Russia di Putin sta sfacciatamente e senza mezzi termini ricordando al mondo le sue ambizioni deluse, non realizzate”. Ma il cuore del suo intervento riguarda la Giornata della Vittoria in Repubblica Ceca, la quale, dalla Rivoluzione di velluto del novembre 1989, si celebra l’8 maggio. L’apparente ragione per cui si decise più di 30 anni fa di anticipare di un giorno l’anniversario era che, con la fine del regime comunista, sembrava che i cechi si fossero “civilizzati e adattati agli standard occidentali”. In effetti, nei paesi dell’Europa occidentale questa giornata si festeggia l’8 maggio, mentre in quelli dell’Europa orientale si celebra il 9 maggio. In realtà, sostiene Doležal, si trattava solo di una scusa per cercare “di oscurare quanto doloroso e problematico sia stato quel periodo e quello che lo ha preceduto per noi, per l’Europa e per il mondo democratico”. Poi, prima di concentrarsi sul bailamme del Secondo conflitto mondiale, l’autore si sofferma sulle conseguenze della Prima guerra mondiale: “portò a decisioni politiche rivoluzionarie in Europa, il cui scopo era di eliminare una serie di rimostranze storiche”. Tuttavia, sorsero una miriade di nuove rimostranze mai risolte che portarono a “un’atmosfera isterica di vendetta tra i vinti, da cui nacque il regime di Hitler, crudele, irresponsabile e, purtroppo, tecnicamente molto abile”. I vincitori della Grande guerra del 1914-1918 si dimostrarono impotenti e irresponsabili. Nel tentativo, poi rivelatosi illusorio, di evitare un secondo conflitto mondiale, fecero ampio ricorso alla politica delle concessioni (appeasement) nei confronti della Germania nazista e dell’Italia fascista. Doležal non manca di sottolineare come successivamente, negli anni del “socialismo dal volto umano” in Cecoslovacchia, il ricorso a questo tipo di acquiescenza abbia portato a conseguenze catastrofiche.
Anche nella seconda parte della Seconda guerra mondiale, per contrastare Hitler e i suoi alleati, gli inglesi, gli americani, i francesi e tutti i governi in esilio non ebbero altra scelta se non quella di unirsi alla “tirannia stalinista”. La collaborazione a livello tecnico fu allora un successo, pertanto “è stato molto facile trascurare il fatto che la natura e gli obiettivi dell’Impero russo [in realtà sovietico n.d.c.], nonché il suo modo di fare la guerra, fossero molto diversi dalla natura e dagli obiettivi delle democrazie occidentali”. La sconfitta di Hitler e dei suoi sodali fece nascere l’illusione che, dall’alleanza delle democrazie occidentali e dell’Impero stalinista, potesse emergere un nuovo ordine mondiale il cui scopo era la pace. Nacque dunque l’ONU in qualità di presunta comunità di Stati democratici del mondo, in realtà fortemente eterogenei e con idee di giustizia estremamente differenti, se si pensa al dispotismo di Stalin. Qui Doležal torna a riflettere sul ruolo delle Nazioni Unite, soprattutto in relazione all’odierna guerra della Russia contro l’Ucraina, e ribadisce quanto già sostenuto nel precedente articolo: l’impotenza dell’ONU nelle questioni realmente essenziali. Si sofferma poi nuovamente sull’UE e sulla NATO, istituzioni nate dalla volontà di alcuni dei membri fondatori dell’ONU, allo scopo – rileva l’autore – di dare concretezza alla propria cooperazione in altre organizzazioni che tenessero conto dei rispettivi interessi comuni, significativamente diversi da quelli dell’URSS e dei suoi alleati e satelliti. Al riguardo Doležal cita il bon mot pronunciato dal primo segretario generale della NATO, Hastings Lionel Ismay, per descrivere il compito dell’Alleanza Nord Atlantica: “tenere i sovietici fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto” (to “keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down”). Il rilievo del politologo praghese è che si tratta solo di un commento, tra l’altro risalente al periodo in cui la Germania non faceva ancora parte dell’Alleanza Atlantica; una boutade che è stata a lungo presa troppo sul serio persino dagli stessi politici tedeschi. Doležal confessa di avere un problema col motto di Ismay “perché inevitabilmente si rifletteva nella politica postbellica dell’alleanza democratica, ed è considerato un po’ come una naturale e comprensibile conseguenza dell’epoca, vista la situazione postbellica”. Ma se è “comprensibile” non significa che sia anche “giusta”. Se la cosa giusta è quella di costruire una pace duratura, le cose comprensibili devono essere gradualmente corrette dalla prima esigenza. La sua seconda confessione è quella di non sentirsi abbastanza al sicuro “se non altro per quante simili questioni non dette sono rimaste in sospeso con la pace del dopoguerra, trattata solennemente come vittoria o liberazione”. Afferma, infine, di non affrontare la questione dal punto di vista di un cittadino di un Paese sconfitto in guerra ma “solo dal punto di vista di un cittadino di un Paese che è stato effettivamente sconfitto solo dopo la sua liberazione”; e non manca di sottolineare la corresponsabilità della Cecoslovacchia per l’invasione sovietica del ’68: la sua patria, infatti, aderendo al comunismo sovietico già col colpo di stato del 1948, aveva spianato la strada all’instaurazione del regime totalitario, e questa è stata la reale sconfitta.
La seconda parte dell’articolo, che ha per sottotitolo La “lotta per la pace” di Stalin, il suo crollo, il fallimento della riforma, il tentativo di rivincita (si apre sulla questione della Guerra Fredda, sopraggiunta quando il nuovo ordine di pace mondiale si era appena stabilito, con ciò suggerendo che sarebbe stato meglio definirla “pace calda”, dal momento che, secondo Doležal, quella Fredda non è mai stata una vera e propria guerra. All’esito del Secondo conflitto mondiale Mosca ha acquisito un impero coloniale “tra l’altro, in parti d’Europa che superavano di gran lunga il suo livello in termini di civiltà”. Qui, il riferimento alla sua terra cecoslovacca è evidente, sebbene non sia ancora esplicitamente espresso come lo sarà nelle righe successive, laddove si afferma che la Cecoslovacchia rappresenta un caso curioso poiché con la sua adesione al comunismo sovietico ha fornito essa stessa in maniera disinteressata il dispositivo per la propria colonizzazione: “così che molte persone, compresi i comunisti dal volto umano al potere, si sono resi conto che eravamo una colonia solo nell’agosto del 1968”.
Per quanto riguarda il periodo della perestrojka guidato da Michail Sergeevič Gorbačëv, Bohumil Doležal elogia i protagonisti dello sforzo di riforma e afferma di rispettare nella Federazione Russa “coloro che stanno cercando di continuarlo oggi, in circostanze molto difficili”. Aggiunge che “dovremmo aiutarli il più possibile. Temo solo che le possibilità in questo momento siano limitate, tra le altre cose, dal fatto che ci sono di nuovo in gioco le nostre teste”.
Sulla posizione attuale della Germania e della Repubblica Ceca nel conflitto di cui è oggetto l’Ucraina, conflitto che l’autore definisce “mondiale”, Doležal torna a citare il motto di Ismay, quello per il quale era necessario tenere la Germania “sotto”. Oggi, afferma il critico praghese, non è più così. Lo scontro che si svolge in Ucraina e che scuote il mondo si è inasprito inceppandosi su due problemi specifici: in primo luogo, se e in quale misura gli Stati democratici debbano e possano sostenere l’Ucraina con armi pesanti; in secondo luogo, se questi paesi debbano sottostare al ricatto russo relativo a petrolio e gas naturale.
La prima questione è delicata per la Germania, tra l’altro, perché l’idea del dover stare “sotto” è ancora insita nelle menti dei suoi partner e, per riflesso, degli stessi tedeschi, costringendoli a mostrare “pacifismo” anche quando non sarebbe affatto appropriato. Tuttavia, alla fine il Bundestag, con un ampio consenso democratico tra coalizione di governo e opposizione, è giunto alla conclusione che gli aiuti siano la cosa giusta da fare. Doležal anche su questo aspetto non si tira indietro e dichiara apertamente che si tratta di una conclusione “del tutto corretta”.
Riferendosi poi al contesto della Repubblica Ceca, il nostro autore sottolinea come una tale capacità di consenso tra coalizione di governo e opposizione sia un’utopia. L’idea che, su una ipotetica materia assolutamente sostanziale, l’opposizione democratica possa trovarsi d’accordo con il governo, “è qualcosa di abbastanza insolito nel mondo politico ceco”. Conclude il suo articolo lasciando una domanda aperta, la cui risposta è però ovvia e argomentata nelle righe precedenti: “quindi qui chi è «sotto» in termini di politica democratica e capacità di consenso? Cechi o tedeschi?”.
Fotogramma da “Repete” (1994) di Michaela Pavlátová.
C’è un ulteriore articolo, pubblicato il 31 maggio 2022, in cui Doležal si esprime apertamente in merito alla crisi ucraina. L’incipit tuona: “l’’attuale invasione dell’Ucraina è il culmine della politica di vendetta della Russia per la sconfitta nella cosiddetta Guerra Fredda.” Gli eventi attuali hanno dato un definitivo scossone all’ordine mondiale instaurato dopo la sconfitta della Germania hitleriana e del campo dei suoi alleati nel 1945. Nelle parole di Doležal, ciò che sta accadendo oggi “rappresenta l’ultima testimonianza della falsità e del marciume di quell’ordine, che nessuno vuole ammettere”. Allo stesso tempo, costituisce “il primo passo nel tentativo di ripristinare l’Impero russo nel suo periodo di massimo splendore”. In proposito, l’autore si chiede fino a che punto la Russia di Putin riuscirà a spingersi su questo percorso, dal momento che non è rimasto molto dell’antica gloria della Russia zarista e che gli alleati attuali della Federazione Russa sono solo occasionali.
Si sofferma poi sugli avvenimenti della seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento quando sembrava che il Cremlino stesse accumulando una serie di successi. Esamina il fallimento del cosiddetto “Occidente” in Egitto, il caso del pilota USA Gary Powers, la stagnante e deprimente atmosfera politica nella Repubblica Socialista Cecoslovacca. E sentenzia: “mi sembrava [allora] che i russi riuscissero bene in tutto. Volevo vomitare”. Non manca la crisi dei missili a Cuba, di cui nel 2022 è ricorso il sessantesimo anniversario. Alcune testate della stampa ceca hanno rievocato quel drammatico confronto tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, con una peculiare interpretazione: “si dice che il mondo [allora] sia arrivato sull’orlo della guerra mondiale. Ma prima che ciò accadesse, fortunatamente, entrambi i rappresentanti delle maggiori potenze, Chruščëv e Kennedy, se la sono fatta sotto: Chruščëv ha ritirato i missili da Cuba, Kennedy dalla Turchia. E la pace nel mondo è stata salvata”. Per Doležal, soprattutto alla luce della situazione odierna, si tratta di un’interpretazione “creata ad hoc e fuorviante”, in quanto “la storia non è mai fatta dal maggior numero possibile di persone che se la fanno addosso contemporaneamente”. Il coraggio politico non deve essere confuso con la vigliaccheria, come spesso accade al giorno d’oggi in cui si tende a voler demistificare la storia. L’intellettuale ceco si dichiara qui apertamente “per principio un fazioso e prevenuto oppositore dei demistificatori della storia”.
Doležal conclude le sue considerazioni con alcune domande alle quali ancora non si può dare una risposta definitiva ma su cui siamo tutti invitati a riflettere: “ci aspettano tempi duri, o meglio, ci siamo dentro fino al collo. Ci vorrà coraggio. Nel 1962 [i nostri predecessori] ce l’avevano. Possiamo farcela anche noi? Qui, nella Repubblica Ceca? In Europa, nella comunità di paesi alla quale dovremmo appartenere? Mi piacerebbe crederlo, anche se visto quello che sta succedendo qui in questo momento, non sembra molto probabile”.
Tra i frutti di questa rassegna di articoli di Bohumil Doležal, si può notare come egli insista sempre sugli stessi temi che ritiene fondamentali; come egli non abbia mai paura di prendere una posizione chiara, seppur scomoda; come inviti continuamente il lettore a riflettere, a comprendere il passato per evitare di sbagliare ancora, e soprattutto a reagire, ad avere coraggio. Scrive frasi brevi ma taglienti, di grande effetto, e trae conclusioni che lasciano il segno. I testi sono carichi di sarcasmo, i riferimenti colti si alternano a espressioni tipiche del ceco colloquiale, della lingua non scritta, e a volte anche del linguaggio volgare. Emerge la sua personalità di politico e politologo che si mescola perfettamente a quella di esperto critico letterario, di fine e sapiente conoscitore della letteratura.
Si può rilevare anche che ha un occhio di riguardo nei confronti della Germania – in effetti, oltre a essere sia boemista sia germanista di formazione, Doležal si è sempre battuto sulla questione riguardante l’espulsione dei tedeschi dai Sudeti nel 1945, all’alba della fine della Seconda guerra mondiale. Al riguardo ha contribuito a una dichiarazione congiunta di intellettuali cechi e tedeschi dei Sudeti intitolata Reconciliation 95: un passo importante sulla via della riconciliazione bilaterale poiché vi si faceva riferimento, tra l’altro, a temi spinosi quali il risarcimento delle vittime ceche dei crimini nazisti e le richieste di proprietà dei tedeschi dei Sudeti.
Infine, dai continui riferimenti a quella terribile notte dell’agosto 1968, si percepisce chiaramente che gli avvenimenti del passato hanno lasciato un segno indelebile nella società ceca e che, in generale, le ferite di allora non sono ancora del tutto rimarginate.
Installazione di Jaroslav Abbé Libánský, artista austriaco di origine ceca, al confine ceco-austriaco realizzata nel 2002. Consiste in una fila di 200 teste in gesso dell’ex presidente cecoslovacco Edvard Beneš, celebre per i decreti che portano il suo nome e che sancirono la deportazione dei tedeschi dei Sudeti dalla Cecoslovacchia dopo la Seconda guerra mondiale. Fotografia di David Veis/EPA per “The Guardian”.