Tornare alla storia per cogliere la complessità della vicenda ucraina
di Simona Merlo
Dal n° 11 maggio 2022 della rivista “le Sfide”, edita dalla Fondazione Craxi, segnaliamo il saggio di Simona Merlo intitolato Ucraina, una storia alla frontiera (Leggi a pp. 44-47 del pdf).
Riproponiamo il testo per gentile concessione dell’autrice e della rivista, che ringraziamo.
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È necessario tornare alla storia per cogliere la complessità della vicenda ucraina, una trama che va colta nella fatica di comprendere al di là di semplificazioni, letture polarizzate, logiche binarie. La complessità è inscritta nello stesso toponimo Ukraïna, che significa «terra alla frontiera», comune da secoli sia nella lingua russa sia in quella polacca; una nozione, tuttavia, non statica, che ha conosciuto declinazioni diverse nel corso dei secoli fino a divenire, per i nazionalisti ottocenteschi, l’idea di un’«Ucraina» che travalicava i confini tra gli imperi, per includere tutti gli «ucraini», quelli dell’Impero russo e quelli dell’Impero asburgico, identificati su base linguistica.
LA COSTRUZIONE DELL’UCRAINA SOVIETICA
L’Ucraina è uno Stato giovane, sorto alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre del 1991, ma ha alle sue spalle una storia al plurale, dovuta al fatto che i confini dell’attuale Stato ucraino comprendono territori che avevano fatto parte di imperi plurinazionali diversi. Innanzitutto quelli dell’Impero russo, sottomessi dagli zar in epoche differenti e quindi non culturalmente omogenei.
Maggiormente russificati, in quanto di più antica conquista, erano i cosiddetti territori della riva sinistra del fiume Dnipro, comprendenti anche la città di Kiev, la cui unione all’Impero russo risaliva al processo innescato con il trattato di Perejaslav del 1654 dopo che i cosacchi ortodossi di Bohdan Chmel’nyc’kyj si furono schierati a fianco della Moscovia nella lotta contro il Commonwealth polacco-lituano, in un conflitto in cui il fattore religioso – cattolicesimo versus ortodossia – venne caricato di significato geopolitico. Altra vicenda era quella attraversata dai territori della riva destra del Dnipro, acquisiti dagli zar alla fine del Settecento con le spartizioni della Polonia, in parte coincidenti con le regioni storiche della Podolia e della Volinia, oltre che con la regione di Kiev, maggiormente polonizzati rispetto ai precedenti per la più prolungata permanenza sotto il dominio del Commonwealth polacco-lituano. Vi era poi la «Nuova Russia» (Novorossija), la regione costiera affacciata sul Mar di Azov e sul Mar Nero, strappata all’Impero Ottomano alla fine del XVIII secolo, il cui principale centro era Odessa, fatta edificare da Caterina II nel 1794, città cosmopolita, dal particolare profilo culturale, in cui affluirono bulgari, greci, tedeschi, come pure italiani, francesi, armeni, tatari, che si mischiarono alle componenti russa, ebraica, ucraina, bielorussa e polacca della popolazione. Sono questi i territori che costituirono il nucleo dell’Ucraina sovietica che nel 1922, insieme alla Repubblica socialista federativa sovietica russa, a quella bielorussa e a quella del Caucaso meridionale entrò a far parte dell’URSS come una delle sue repubbliche fondatrici. Le basi dell’Ucraina sovietica erano state poste però già nel corso della guerra civile. Al crollo dell’impero zarista l’Ucraina era uscita dall’orbita russa. A Kiev, dopo la rivoluzione di febbraio, tra le diverse forze politiche era emersa la Rada centrale, l’organo di rappresentanza delle diverse associazioni dell’intelligencija ucraina di orientamento nazionale, socialista e moderato.
All’indomani della rivoluzione di ottobre la Rada era entrata in rotta di collisione con i bolscevichi, li aveva sconfitti militarmente e il 7 novembre 1917 aveva proclamato la «Repubblica popolare ucraina», un organismo dalla vita debole e tormentata, ma dal grande valore simbolico per le vicende future, in quanto considerato l’embrione di uno Stato ucraino indipendente dalla Russia. I bolscevichi sconfitti a Kiev erano riparati a Charkiv, la città che non soltanto sarebbe diventata il bastione del bolscevismo in Ucraina, ma pure la capitale dell’Ucraina sovietica fino al 1934. Proprio da qui, nel dicembre del 1917, sarebbe partita la prima operazione militare bolscevica di Lenin e Stalin, all’epoca commissario del popolo alle nazionalità, fuori della Russia, con l’invasione della Repubblica popolare ucraina dopo una richiesta di aiuto da parte del governo fantoccio di Charkiv. Questa operazione militare segnò non soltanto l’inizio della guerra civile, ma anche la prima manifestazione dell’espansionismo imperiale da parte del centro bolscevico. Contrari all’invasione erano stati i bolscevichi del Donbas, che avevano a loro volta formato la Repubblica di Donec’k e Krivoj Rog, un’entità politica semi-indipendente da Pietrogrado. Per costoro il Donbas era parte integrante della Russia, la sua appendice meridionale, e non una regione ucraina. Tuttavia vinse Lenin che impose ai bolscevichi del Donbas la scelta ucraina (probabilmente perché non fidandosi degli ucraini vedeva nell’inclusione dei fedeli bolscevichi del Donbas una garanzia contro il nazionalismo ucraino), ponendo le basi per la definizione geopolitica del territorio ucraino. È tuttavia la Seconda guerra mondiale a costituire un punto di svolta nella costruzione dell’Ucraina sovietica, con l’annessione della Galizia orientale e della Volinia occidentale (strappate alla Polonia), della Bucovina settentrionale (sottratta alla Romania) e della Transcarpazia (ceduta dalla Cecoslovacchia). Entravano a far parte dell’Ucraina territori con vicende storiche profondamente differenti da quelli del nucleo storico dell’Ucraina sovietica, abitati da significative minoranze nazionali, come nel caso della Bucovina e della Transcarpazia. Diverso era il caso della Galizia orientale, ex asburgica ed ex polacca, una regione portatrice di un senso identitario forte, che si sentiva il cuore pulsante del nazionalismo ucraino. Con le nuove acquisizioni la posizione della Repubblica ucraina di bastione verso l’Europa veniva ad assumere una rinnovata importanza dal punto di vista geopolitico in quanto proiettava i confini dell’URSS verso quell’Occidente da cui sarebbero potute provenire le peggiori minacce alla stabilità sovietica, nel momento in cui si profilavano all’orizzonte i nuovi equilibri della Guerra Fredda. Ne risultava rafforzata la natura di frontiera dell’Ucraina. Infine, a completamento della costruzione dell’Ucraina sovietica, vi fu il trasferimento della Crimea dalla Repubblica federativa russa a quella ucraina voluto da Chruščëv nel 1954 a celebrazione dei trecento anni del trattato di Perejaslav.
TRA PLURALITÀ E NAZIONALISMO
Le diverse vicende attraversate dai territori che oggi compongono l’Ucraina sono alla base delle specificità regionali che hanno connotato l’Ucraina sovietica e che oggi connotano l’Ucraina indipendente. All’indomani del crollo dell’URSS è stato difficile applicare all’Ucraina il paradigma di un «normale» Stato nazionale, così come è risultato arduo, dato il contesto, parlare di un’identità nazionale unica e coesa. Per spiegare il carattere plurale dell’Ucraina si è cercata una chiave interpretativa. Negli anni Novanta, soprattutto in ambito politologico più che storico, ha avuto un certo successo la lettura delle «due Ucraine». Samuel Huntington nel celebre volume Clash of Civilizations, che si è mosso a partire dal rigido schema di due Ucraine contrapposte, caratterizzate – a suo avviso – da due distinte culture: una occidentale, ucrainofona, greco-cattolica ed europeizzata; l’altra orientale, ortodossa, russofona e filo-russa (nota 1). Tale rappresentazione dell’Ucraina come quella di una realtà bicefala, faglia tra due civiltà, l’“occidentale” e l’“ortodossa”, non rende ragione, tuttavia, dell’esistenza di regioni ucraine con storia e connotazioni particolari, non assimilabili alla contrapposizione tra l’Ucraina occidentale e l’orientale. La Transcarpazia, la Bucovina, la Crimea, non rientrano in questo schema. La stessa Galizia che, come si è detto, a partire dalla metà dell’Ottocento ha giocato il ruolo di “motore” del nazionalismo ucraino, proviene da una storia multinazionale. Leopoli, la principale città della Galizia che si percepiva come capitale morale della nazione, era sotto l’Impero asburgico un importante centro del nazionalismo polacco e aveva una forte componente ebraica (quasi l’11,9 per cento degli abitanti all’inizio del Novecento) che sarebbe stata decimata durante la Shoah. In anni più recenti alcuni studiosi – forse con qualche forzatura – hanno parlato dell’Ucraina come di uno “Stato di regioni”, un paradigma interpretativo che ha il pregio di mettere in risalto l’innegabile specificità del caso ucraino rispetto ad altre realtà del mondo slavo, dettata dalla pluralità di esperienze trascorse dai suoi territori. Dall’altro lato, a partire dall’indipendenza, molto si è insistito sul fare dell’Ucraina un «normale» Stato nazionale. La lunga tradizione del nazionalismo ucraino affonda le radici nell’Ottocento, tra gli intellettuali ucraini dell’Impero asburgico, ma anche in alcuni ambienti come l’università di Charkiv e, soprattutto, alcuni circoli culturali di Kiev. Il nazionalismo emerse in vari momenti della storia dell’Ucraina sovietica anche tra le stesse file del Partito Comunista, sotto la forma del comunismo nazionale, e rimase come una corrente carsica all’interno dello stesso Partito Comunista dell’Ucraina fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel corso della perestrojka il nazionalismo che si affermò in Galizia avrebbe ambito ad assumere il valore di paradigma per tutta l’Ucraina (che, tuttavia, non era una grande Galizia, nel senso che non ne aveva l’omogeneità linguistica, né culturale, né religiosa). Secondo lo studioso americano di origine ucraina Roman Szporluk, l’annessione sovietica dell’Ucraina occidentale può essere considerata «una delle decisioni più fatali di Stalin nel periodo tra il 1939 e il 1945» (nota 2) perché proprio da qui si sarebbe mosso il movimento di liberazione nazionale rappresentato dal Ruch, il Movimento popolare dell’Ucraina, una delle principali organizzazioni nazionali dell’Unione Sovietica, che in Galizia, oltre che a Kiev, aveva il suo principale centro propulsivo. Fu il Ruch, a partire dal 1989, a elaborare gradualmente un progetto di indipendenza dell’Ucraina da Mosca, non riuscendo tuttavia a conquistare il potere dopo l’indipendenza, potere che sarebbe rimasto nelle mani dell’ex dirigenza comunista convertita al nazionalismo, di cui il principale esponente fu il primo presidente dell’Ucraina indipendente, Leonid Kravčuk (1991-1994).
EREDITÀ POLITICHE, CULTURALI E RELIGIOSE
Nella storia dell’Ucraina contemporanea sono confluite eredità politiche, culturali e religiose differenti. Se l’eredità nazionalista ha avuto un ruolo decisivo per elaborare un disegno di Ucraina indipendente, pure l’eredità sovietica ha giocato, e gioca, un ruolo. L’eredità sovietica, come è stato scritto recentemente da alcuni studiosi ucraini, «pesa di più sull’Ucraina contemporanea, non solo perché è la più recente, ma anche perché questa è l’unica eredità che appartiene a tutta l’Ucraina», con tutte le differenze regionali di cui abbiamo parlato (nota 3). In altre parole, c’è stato un progetto sovietico che, pur con tutte le sue contraddizioni e aporie, ha posto le fondamenta dello Stato nazionale ucraino, se non altro per il fatto che ha disegnato i suoi confini; sono le contraddizioni e aporie di cui non era privo neppure il progetto nazionalista – quello che voleva fare dell’Ucraina un normale Stato nazionale secondo il paradigma ottocentesco – e che in questi ultimi anni sono emerse, le une e le altre, in tutta la loro drammaticità. C’è poi un’eredità imperiale che è rimasta tra le stratificazioni della storia ucraina e che è ben rappresentata da Kiev, il luogo dove la Rus’, il primo Stato degli slavi orientali, si convertì nel 988 al cristianesimo bizantino. Nell’immaginario imperiale Kiev era la città santa, la «madre delle città russe», la sua fonte battesimale, come ricorda ancora la grande croce sulla collina di Volodymyr che domina la città. Kiev Zlatoverchij, ossia la «città dalle cupole d’oro», come era chiamata in epoca imperiale, era rimasta anche in epoca sovietica meta di pellegrinaggi e custode di santuari venerati da tutti gli slavi orientali, tra cui la Lavra delle Grotte, non soltanto uno dei quattro maggiori monasteri della Chiesa russa, ma il luogo di nascita del suo monachesimo. Per tale ragione la città ha storicamente rivestito grande importanza anche per i rapporti tra l’Ucraina e la Russia, poiché Kiev è il luogo-matrice. Ma Kiev e l’Ucraina sono anche luogo di incontro e coabitazione tra cristiani e tra tradizioni religiose diverse e, allo stesso tempo, luogo di divisioni e di conflitti. Anche l’aspetto religioso concorre alla complessità di questi territori. Attualmente l’ortodossia ucraina è divisa in due Chiese: la Chiesa ortodossa ucraina in comunione con il patriarcato di Mosca, in grande difficoltà dopo l’invasione russa; e la Chiesa ortodossa dell’Ucraina o, qual è la sua denominazione ufficiale, la metropolia di Kiev della Chiesa ortodossa ucraina, sorta a seguito del cosiddetto “Concilio di unificazione” nel dicembre 2018 dall’unione di due Chiese fino ad allora considerate scismatiche da tutto il mondo ortodosso: la Chiesa autocefala ortodossa ucraina, nata nel 1921, e la Chiesa ortodossa ucraina – patriarcato di Kiev, apparsa all’inizio degli anni Novanta del XX secolo a seguito di uno scisma perpetrato dall’ex metropolita di Kiev Filaret (Denysenko). Il 6 gennaio 2019 al Fanar, la sede del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, la nuova Chiesa ha ricevuto dalle mani del patriarca ecumenico Bartholomeos, alla presenza del presidente dell’Ucraina Petro Porošenko, il tomos di autocefalia e, con esso, il riconoscimento ufficiale da parte di Costantinopoli (nota 4). Mosca non ha accettato tale passo e ha interrotto la comunione eucaristica con Costantinopoli, dando di fatto inizio a uno scisma all’interno del mondo ortodosso, le cui conseguenze si sono fatte ancora più pesanti nel contesto della guerra in corso. Inoltre, attraverso l’attuale Ucraina è storicamente passata la linea di faglia tra mondo polacco, cattolico e latino, e mondo russo, ortodosso e bizantino. Anche in questo caso si è trattato di un confine non rigido, che ha più volte ridisegnato la geografia confessionale, specialmente dopo che alle componenti ortodossa bizantina e cattolica latina, a partire dall’unione di Brest del 1596, si affiancò quella greco-cattolica, una realtà «terza», cattolica ma non latina, fedele al papa di Roma, ma fiera della propria tradizione «altra». Durante il regime sovietico questa Chiesa ha molto sofferto, fu soppressa e integrata nella Chiesa ortodossa russa per volere dello stesso Stalin. Il clero che non accettò di passare sotto la giurisdizione del patriarcato di Mosca fu incarcerato, mentre una parte delle comunità greco-cattoliche sopravvisse nella clandestinità fino alla fine degli anni Ottanta, nel clima di apertura promosso da Michail Gorbačëv. Infine, anche la componente protestante ha rappresentato una presenza tutt’altro che secondaria nel panorama religioso ucraino. Comunità battiste apparvero nell’impero zarista alla fine degli anni Cinquanta del XIX secolo, inizialmente all’interno delle minoranze di lingua tedesca insediate nelle periferie occidentale e meridionale dell’impero. La loro vicenda, soprattutto in Ucraina, si sarebbe intrecciata a quella del movimento štundista (dalla parola tedesca Stunde, che indica l’ora dedicata alla preghiera e alla lettura delle Scritture), sorto in Russia nei primi anni Sessanta del XIX secolo sotto l’influsso dei coloni tedeschi di tradizione pietista stanziati in Crimea e sul Volga, ma presenti in maniera consistente anche nei governatorati di Kiev, della Volinia e della Podolia. Verso la metà degli anni Settanta del XIX secolo il movimento sarebbe confluito nel battismo (da cui la denominazione di štundo-battismo) e avrebbe conosciuto un notevole sviluppo a partire dalla fine del XIX secolo anche tra la popolazione autoctona. Nonostante le persecuzioni e le discriminazioni perpetrate dal regime, l’Ucraina sarebbe rimasta la Bible Belt dell’Unione Sovietica: qui era ospitata circa la metà del milione e mezzo di battisti registrati in URSS (a cui ne andrebbero aggiunti altrettanti non registrati), una circostanza che rendeva quella ucraina sovietica la più grande comunità battista in Europa e una delle più grandi al mondo al di fuori degli Stati Uniti. Occorre poi rammentare come sotto l’Impero russo l’Ucraina fosse inserita nella čerta osedlosti, ovvero la speciale «zona di residenza», che includeva anche Bielorussia, Polonia e gli attuali Paesi baltici, dove erano costretti a vivere gli ebrei sudditi degli zar. In epoca imperiale molte città dell’Ucraina avevano una chiara impronta ebraica. A Odessa, ad esempio, secondo il censimento del 1897 gli ebrei costituivano il 30,8 per cento della popolazione cittadina, si parlava yiddish, la città era un centro di elaborazione culturale ebraica, basti pensa re al rilievo della tradizione chassidica. Ma nello stesso anno gli ebrei rappresentavano il 12,1 per cento della popolazione di Kiev, il 35,4 per cento di quella di Ekaterinoslav (dal 1926 Dnipropetrovs’k), fino ad arrivare a punte del 46,4 per cento a Žytomyr, del 46,9 per cento a Kremenčuk e del 77,1 per cento a Berdyčiv. Nei primi decenni del Novecento la popolazione ebraica delle grandi città sarebbe ulteriormente aumentata, tanto che a Kiev nel 1927 raggiunse il 27,4 per cento e a Odessa il 36,7 per cento. Lo sterminio degli ebrei sovietici perpetrato a seguito dell’invasione nazista dell’URSS durante la Seconda guerra mondiale, e di cui l’episodio più emblematico fu l’eccidio compiuto nel settembre 1941 a Babij Jar, un sobborgo della capitale ucraina, avrebbe drasticamente ridimensionato – ma non completamente cancellato – la consistenza delle comunità ebraiche dell’Ucraina.
TERRE DI SANGUE
Quanto avvenuto agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale richiama alla realtà dei territori ucraini come “terre di sangue”, secondo una definizione dello storico Timothy Snyder (nota 5). Il Novecento in Ucraina è stato segnato da grandi sofferenze, a partire dalla Prima guerra mondiale e poi, senza soluzione di continuità, la guerra civile, segnata, tra l’altro, da pesanti pogrom contro gli ebrei. A seguire, le repressioni staliniane, culminate nel holodomor, la morte per fame di milioni di contadini negli anni 1932-1933, su cui si è prodotto un grande dibattito a livello storiografico a proposito di alcuni nodi: il numero delle vittime, la natura artificiale o meno della carestia che provocò la morte di massa, il suo carattere genocidario. In ogni caso, il holodomor ha costituito una profonda ferita nella storia dell’Ucraina e all’indomani dell’indipendenza è stato posto come uno dei fondamenti della costruzione nazionale. Anche la Seconda guerra mondiale ha costituito una pagina drammatica. Si è già detto della Shoah. Vi sono poi le vittime di una guerra che in Ucraina si è protratta tre anni e che è stata caratterizzata, in una prima fase, dall’occupazione tedesca e, in una seconda, dalla controffensiva sovietica. Inoltre, in Ucraina occidentale, in particolare in Volinia, al conflitto tra sovietici e nazisti si affiancò quello tra ucraini e polacchi, in territori contesi, dove dopo la guerra si registrò un esodo incrociato: i polacchi lasciarono la Galizia e la Volinia divenute sovietiche; gli ucraini abbandonarono lo Stato polacco. Nel nuovo millennio l’Ucraina è tornata a essere una terra di sangue, e non da oggi. All’origine di una situazione che è poi generata nella guerra in corso stanno due rivoluzioni che in realtà erano state contraddistinte da un carattere pacifico: la Rivoluzione arancione del 2004 contro i brogli elettorali finalizzati all’elezione a presidente del filo-russo Viktor Janukovyč, e che avrebbe condotto all’elezione del filo-occidentale Viktor Juščenko; e, soprattutto, la Rivoluzione della dignità del 2013-2014. Le ragioni di quest’ultima affondano le radici nel rifiuto di Viktor Janukovyč, che nel 2010 era stato eletto presidente, di firmare il trattato di associazione e libero scambio con l’Unione Europea, la cui firma era prevista al summit di Vilnius nel novembre 2013. Ne scaturì una protesta di piazza, nata originariamente in un mondo giovanile che sentiva tradita la propria ansia di entrare in Europa (sebbene il trattato non avesse nessun intento preparatorio all’adesione dell’Ucraina alla UE). Era l’idea di Ucraina libera, europea, più democratica che attraversava la società civile. Le mobilitazioni si trasformarono gradualmente in una rivolta contro il potere corrotto e arrogante di Janukovyč e del suo entourage, con il coinvolgimento di settori sempre più ampi della società, fino alla fuga del Presidente in Russia. Nel frattempo, però, le manifestazioni erano degenerate in scontri di piazza, soprattutto dopo che si furono infiltrati nel movimento gruppi nazionalisti di estrema destra come Pravyj Sektor (Settore destro), che avevano scatenato una guerriglia urbana. Sebbene l’obiettivo di spodestare il Presidente fosse stato raggiunto, restava lo shock per le oltre cento vittime e le diverse centinaia di feriti attorno alla piazza centrale di Kiev, Majdan Nezaležnosti, la Piazza dell’Indipendenza, una ferita nel cuore della capitale. La rivolta aveva assunto una dimensione geopolitica fin dall’inizio, soprattutto da parte dell’élite russa che aveva cominciato a percepire l’Ucraina come un’anti-Russia. Dietro a tale percezione stava il timore di perdere l’Ucraina, a cui la Russia si sente legata da storia e identità, ma che pure era rilevante, dal punto di vista strategico e geopolitico, per l’economia. La reazione russa non si fece attendere: dapprima l’annessione della Crimea alla Russia, formalizzata il 18 marzo 2014 dopo la frettolosa organizzazione di un referendum nella penisola, e poi, a partire dal maggio successivo, l’inizio della guerra nella regione orientale del Donbas tra i separatisti delle autoproclamate repubbliche di Donec’k e Luhans’k sostenuti dalla Russia e l’esercito ucraino. Se, da una parte, la rivolta nel Donbas esprimeva il malcontento di una regione che aveva una visione diversa da quella della nuova classe dirigente ucraina e non ne condivideva la politica nazionale, dall’altra essa coinvolgeva una Federazione Russa che intendeva destabilizzare il nuovo potere ucraino. La guerra, definita “ibrida” o “a bassa intensità”, ha prodotto comunque in otto anni, fino all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 almeno 13.000 morti e soprattutto diffuso, sia in Ucraina sia in Russia, un clima caratterizzato da propaganda e nazionalismo bellicista, terreno di coltura dell’attuale conflitto di cui al momento non è possibile prevedere l’esito finale, sia per le sorti dell’Ucraina, sia per un’Europa dove dopo quasi ottant’anni è tornata la guerra, sia per il mondo, considerate le implicazioni della minaccia nucleare.
Note