Una serie TV che sembra annunciare la guerra dell’energia, il conflitto in Ucraina, lo scontro Russia-UE
di Marina Bedzki
Lo spettatore pensa subito alla guerra in Ucraina, se gli è capitato di seguire la serie TV Occupied basata sull’idea originale dello scrittore Jo Nesbø.
Occupied s’interroga su una situazione politica “irreale”, quella dell’occupazione della Norvegia da parte di una forza straniera. La Norvegia smette di estrarre petrolio e la Russia la invade: questo è lo scenario della serie andata in onda alla televisione norvegese nel 2015, quindi pensata prima del 2015, certamente anche sotto l’impatto dell’annessione della Crimea nel 2014. La trama è rivelatrice delle ansie e degli spettri che agitano l’immaginario dell’area scandinava – (a proposito di differenze di mentalità e differenti percezioni tra Est e Ovest del continente.
Vedi il trailer della prima serie.
Sotto forma di teso thriller politico, Occupied (Okkupert) immagina un futuro prossimo nel quale la Russia, con il benestare dell’Unione Europea (e degli Stati Uniti), occupa la Norvegia per ripristinare la produzione di petrolio e gas, in risposta a una crisi energetica che sconvolge l’intera Europa, crisi causata tra l’altro dal Partito Ambientalista norvegese che ha fermato la produzione di petrolio e gas del paese affidandosi alle energie rinnovabili. La Norvegia ha rinunciato ai combustibili fossili dopo un tremendo uragano che ha provocato una catastrofe ambientale con migliaia di vittime, catastrofe causata a sua volta dal riscaldamento climatico. Niente più petrolio e niente più gas, dunque, dalla Norvegia. Scelta più che motivata, ma va a toccare interessi vitali di altri paesi, che del petrolio non intendono o non possono fare a meno. E poiché il petrolio non arriva più nemmeno dal Medio Oriente in subbuglio, mentre gli Stati Uniti hanno raggiunto l’autosufficienza energetica, l’Europa priva di energia non sa come fare. Per evitare il disastro, l’UE chiede di nascosto aiuto alla Russia, che – nella fiction – “gentilmente” corre in soccorso dell’Unione (col tacito accordo degli Stati Uniti). Si stringe così una morsa sempre più stretta intorno al governo norvegese, dalle pressioni diplomatiche alle minacce vere e proprie. Trattandosi di un futuro distopico, improvvisamente viene rapito il primo ministro norvegese (l’ambientalista eletto dopo l’uragano), poi liberato a condizione di riaprire pozzi e impianti e riavviare l’approvvigionamento petrolifero in Europa e in Russia. Da qui ha inizio una rapida escalation di fatti che mettono in evidenza come si possa invadere un Paese straniero solo col proprio ambasciatore e qualche alto funzionario, senza bisogno di rappresaglie, senza carri armati. Semplicemente e “garbatamente” offrendo il proprio aiuto alla Norvegia con la minaccia, neppure tanto velata, di una guerra vera. La Russia è pronta a invadere militarmente la Norvegia, se non dovesse ripartire l’estrazione di petrolio. È un attimo: i russi assaltano una piattaforma petrolifera, ridisegnano i confini, i norvegesi si trovano a dover decidere… sono obbligati a… In estrema sintesi assistiamo alla storia di un piccolo Stato che deve fare i conti con la potenza del proprio vicino (mentre il resto del mondo sposa, guarda caso, le ragioni del potente). La piccola nazione “amabilmente” invasa, “in pace” occupata, cerca di arrangiarsi tra questioni etiche, economiche, politiche e di sicurezza, oltre che culturali e identitarie. Pian piano la società si spacca, si polarizza, i singoli protagonisti son sempre più in bilico esistenziale, la sfera pubblica inquina la sfera privata e viceversa. La minaccia militare della superpotenza rimane sempre sullo sfondo ma corrompe come un acido velenoso gli animi di un paese fondamentalmente pacifista. Eppure, in un clima di tensione, insicurezza, malessere, paura, e pure violenza talvolta fisica soprattutto psicologica, cresce la resistenza.
Non si tratta di pubblicizzare la serie, ma di cogliere il suo messaggio essenziale su cosa può essere una guerra di invasione soft, invasione subita proprio per evitare la guerra. La sceneggiatura scava nel fenomeno “occupazione gentile” meandri ben sottili e complessi, alcuni sono tunnel soffocanti e dolorosi.
Jo Nesbø ha raccontato nel marzo scorso al quotidiano britannico The Guardian (traduzione mia): “Il mio obiettivo per la serie era quello di concentrarmi sui dilemmi morali affrontati dalla gente comune in una situazione estrema, per fare un parallelo con ciò che i nostri genitori e nonni avevano vissuto durante l’occupazione tedesca della Norvegia tra il 1940 e il 1945. Lo sfondo era costituito dalle manovre tra un Paese più piccolo, un potente vicino e il resto delle nazioni dominanti del mondo, che bilanciavano i principi politici con considerazioni economiche e riguardanti la propria sicurezza. Credevo fosse ovvio che lo scopo del mondo immaginario di Occupied fosse quello di non dire nulla sulla Russia, proprio come l’obiettivo di Steven Spielberg in Jaws era quello di non dire nulla sui grandi squali bianchi. Tuttavia, le autorità russe non la presero molto bene. Vyacheslav Pavlovsky, ambasciatore in Norvegia, ha dichiarato all’agenzia di stampa russa Tass che «è certamente deplorevole che in quest’anno, in cui si celebra il 70° anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale, gli autori abbiano apparentemente dimenticato l’eroico contributo dell’esercito sovietico alla liberazione della Norvegia settentrionale dagli occupanti nazisti e abbiano deciso, nella peggiore tradizione della guerra fredda, di spaventare gli spettatori norvegesi con un’inesistente minaccia dall’est». Può darsi che l’ambasciatore fosse un po’ suscettibile, perché l’anno prima [2014] la Russia si era annessa la Crimea. Ma Occupied era stato scritto e messo in produzione molto tempo prima e si trattava di un’opera di finzione in cui, per una volta, i russi non erano rappresentati come un gruppo di «cattivi» simili a robot uniformemente malvagi. Allora perché questo accanimento?” – si chiedeva Jo Nesbø.
Oggi è in corso una battaglia tra diverse versioni della storia: sarà la migliore a trionfare oppure la prima vittima di questa guerra sarà la verità? La domanda essenziale – sostiene Jo Nesbø – è “quali misure siamo disposti a prendere per conquistare i cuori e le menti [degli europei], dal momento che Vladimir Putin sta mettendo in atto un tipo di censura e di propaganda che pensavamo fosse stato bandito nel passato. È auspicabile – o addirittura opportuno – giocare secondo le sue regole? Sembra contraddittorio che un Paese democratico rinunci a principi come la libertà di parola e la trasparenza, anche se nel tentativo di proteggere temporaneamente tali libertà. Potremmo sperare che la verità – la verità imperfetta e soggettiva di un giornalista, di un artista o di qualsiasi altro narratore che cerchi di esprimere qualcosa di vero – vinca. Ci sono esempi di questo tipo, dopo tutto (…) Di fronte a un estenuante groviglio di versioni diverse della realtà, non dobbiamo arrenderci e accettare [supinamente] che ogni versione sia ugualmente vera. Alcune sono davvero più vere di altre (…) Giorno dopo giorno seguiamo gli sviluppi militari, le sanzioni, la diplomazia, ma la guerra di narrazione è guerra lunga (the war for the narrative is the long war). In definitiva, è una guerra che Putin perderà”.