I social di oggi come fonti e documenti di domani
di Paolo Morawski
Immagine di copertina.
Immaginiamo per un istante che i proprietari dei maggiori medium sociali si accorgano di non avere la liquidità necessaria per sopravvivere, di essere in rosso di diversi miliardi di dollari. Immaginiamo di conseguenza lo scenario più negativo: la bancarotta di Facebook, ma ancor più di Twitter. Segue un piano di licenziamenti per tentare di salvare il salvabile, ma poi, non essendoci niente da fare, il social-azienda chiude, non c’è più. Chi ne era utilizzatore assiduo patisce qualche (temporaneo) fastidio, forse qualche (lieve) dramma. Poi la vita riprende (benissimo) senza quel social. Il commento potrebbe essere il seguente: di aziende fallite è costellata la storia, andiamo avanti.
Tuttavia, anche se non si è utilizzatori abituali di Twitter, qualche riflessione andrebbe fatta in reazione al possibile scenario. Non v’è dubbio che l’irruzione delle tecnologie digitali ha già trasformato e continua a trasformate l’idea stessa di “sfera pubblica” – ora “sfera pubblica digitale”, che è al tempo stessa “pubblica” perché di massa (coinvolge milioni, miliardi di persone) ed è al tempo stesso “privata” perché ha come proprietari imprenditori privati interessati (legittimamente) innanzitutto a generare profitti. Alcuni pensatori (come il filosofo tedesco Jürgen Habermas) sono particolarmente sensibili alle conseguenze politiche e ai rischi che possono derivare per il sistema politico europeo/occidentale dal fatto che è sempre più difficile distinguere tra spazi pubblici e privati, tra ciò che è servizio al cittadino e promozione e vendita al consumatore. Il digitale ha cambiato in maniera radicale il modo col quale le persone si relazionano tra loro, creano gruppi e comunità, si connettono alle più svariate fonti on line, hanno accesso alle più diverse tipologie multimediali di informazione e conoscenza. Scomposta è in effetti la maniera con la quale si alimenta la cultura diffusa e si formano le opinioni nell’universo della comunicazione digitale. Per come esso è strutturato oggi, lo spazio digitale a netta dominanza privata/commerciale non offre nessuna garanzia di trasparenza, competenza, affidabilità, verità, obiettività. Tutto si mischia, tutto apparentemente ha pari dignità e valore, chiunque può essere incluso, partecipare, sebbene nei fatti si possa essere facilmente esclusi dalle informazioni pregiate e dai circuiti di qualità. In quanto consumatori, fruitori il più delle volte passivi, di fatto ci barcameniamo non sempre efficacemente tra informazioni degne di tale nome, certificate, attendibili e notizie frivole, non verificate, interessate, falsate di proposito. Nel “mercato digitale” la più approfondita inchiesta giornalistica o i risultati di un duro lavoro di ricerca scientifica sono soverchiati da messaggi pubblicitari, incessanti campagne di marketing, gossip oppure velenose campagne di disinformazione. E tutti siamo preda di algoritmi e sistemi di raccomandazione che non controlliamo.
Quanta fatica costi informarsi e acquisire effettive conoscenze online è apparso in tutta la sua evidenza con questa guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina.
Al riguardo segnalo un libro di recente pubblicazione che già stimola dibattito: Michele Mezza, Net-war. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra, Donzelli 2022.
Dalla scheda dell’Editore: “Per la prima volta, le armi con cui viene condotta la guerra coincidono con le infrastrutture digitali dell’informazione: siti web, smartphone, droni, sistemi di geolocalizzazione, piattaforme social hanno costituito il principale arsenale del confronto fra invasori e invasi, permettendo ai secondi di localizzare e colpire con estrema precisione le forze nemiche, anche grazie al supporto diretto della popolazione che rimaneva connessa, persino sotto i bombardamenti. Le azioni militari vengono strategicamente studiate e messe in atto proprio pensando al loro effetto comunicativo, perché il modo in cui verranno raccontate determinerà la percezione del conflitto e, in ultima analisi, il suo esito. Se non è una novità che la comunicazione della guerra sia un terreno cruciale e delicato, oggi essa è diventata l’oggetto del contendere. Tutto questo porta a un cambiamento epocale nel giornalismo, dove a mutare radicalmente è il rapporto tra la redazione e le fonti: le notizie sono alluvionali testimonianze civili, che affiorano in abbondanza dalla rete e devono essere validate e contestualizzate più che rintracciate. In questo gorgo il giornalista si misura innanzitutto con la sua autonomia da saperi e competenze tecnologiche che tendono a soverchiarlo, trasformandolo in un funzionario del sistema di calcolo che si afferma mediante «interferenza nelle psicologie altrui». La Net-war è dunque «mediamorfosi» che trasforma guerra e giornalismo in una contesa matematica”.
Il primo danno inferto dal digitale alla sfera pubblica è, dunque, che essa è gravemente “alterata” dal miscuglio pubblico/privato, servizio/commercio, interesse generale/particolare, “perturbata” nella sua stessa essenza, oltre che frammentata, parcellizzata, esplosa in mille rivoli e mille nicchie. Non si capisce più a cosa corrisponda esattamente nel mondo digitale il “bene pubblico”, il “servizio pubblico” e la “cittadinanza tutta”.
C’è un secondo aspetto altrettanto allarmante dello spazio pubblico digitale che riguarda la memoria collettiva. Torniamo all’ipotesi immaginata di cessazione di un social come Twitter. Su Twitter, anche su Twitter, talvolta anzitutto su Twitter si sono espressi in relazione a questa guerra d’invasione capi di stato, decisori politici, intellettuali, giornalisti, protagonisti e osservatori internazionali. Su Twitter hanno offerto testimonianza le vittime ucraine in un flusso di segnalazioni e rimandi a link, testi, immagini, video, audio. Volendo, dal giorno dell’invasione russa ci sono milioni di tweet che raccontano e documentano, alcuni quasi in tempo reale. Ripercorrendone l’esatta cronologia si possono fissare fatti, date, talvolta cogliere slanci emotivi, attese, speranze, delusioni. In un certo senso, così non era mai successo prima d’ora. Pertanto, la domanda è lecita (se la pone tra i primi Edoardo Fleischner): se Twitter chiude baracca e non “salva” tutta la sua mole di informazioni sulla guerra in corso, cosa accade? Quella memoria digitale è definitivamente persa? Persa per chi? Solo per gli storici e gli studiosi di domani? Il problema ovviamente non è Twitter, solamente Twitter in quanto tale. La sfida non è neppure assegnare alle macchine il “ricordo” della guerra della Russia in Ucraina. Non si tratta di una questione relativa agli strumenti di conservazione digitale (grandezza degli archivi, durata dei supporti, software per la catalogazione, la ricerca e l’accesso ai contenuti eccetera). Le tecnologie digitali certamente offrono nuove opportunità per preservare e rafforzare i contenuti culturali e renderli più accessibili a tutti. Inoltre, il digitale consente di produrre nuove forme di narrazione. Qui, tuttavia il problema è per così dire archetipo (il bisogno collettivo di memoria), quindi è mentale-culturale (non interrompere il senso tutto umano della continuità del tempo e la ricerca tutta umana di percorsi che diano senso e prospettiva all’esistenza con riferimento specifico a questo secolo digitale). In altre parole, il tema di fondo è la consapevolezza di quanto sia importante e necessario preservare la memoria del passato anche in un universo sempre più digitale popolato di oggetti e documenti digitali, “nati digitali”. Oggi diciamo anche, domani quasi interamente digitale sarà il contesto di riferimento.
Ci si commuove a ragione per la perdita materiale di un capolavoro artistico del passato (un quadro, un affresco, un monumento, un tempio, un palazzo, un manufatto o altro oggetto dell’ingegno creativo). Non dovremmo commuoverci similmente per la perdita di intere porzioni virtuali di memoria collettiva? Questo inizio secolo ha inventato il cosiddetto “patrimonio culturale immateriale”, che comprende tutti quegli elementi trasmessi di generazione in generazione che alimentano i sentimenti di appartenenza a una comunità (tradizioni vive, lingua ed espressioni orali, arti dello spettacolo, consuetudini, riti, feste popolari, pratiche sociali, usanze, artigianato tradizionale). Ebbene, a quello immateriale, non dovremmo aggiungere il concetto nuovo di “patrimonio virtuale (elettronico, digitale)”?
L’allarme sulla conservazione delle informazioni in formato elettronico è stato lanciato almeno vent’anni fa soprattutto per richiamare l’attenzione sulla “mortalità” dei siti in Rete. Quindi si è concentrato sui documenti e sulle informazioni prodotte direttamente in formato digitale dalle istituzioni, dalla pubblica amministrazione, dalla sanità, dalle banche. Presto l’impeto conservativo si è esteso alla cultura, all’arte (street art inclusa), alla scienza, tendenzialmente vorrebbe inglobare adesso l’intera esistenza di ciascuno.
Ora la guerra della Russia in Ucraina (ripro)pone con urgenza il tema dei social come fonte da preservare. L’“eclisse della memoria” più volte paventata dagli esperti non riguarda solamente le tecniche di conservazione, la piena garanzia di sottrazione dei file digitali a ogni rischio di manipolazione o tematiche specifiche quali copyright, monitoraggio dati, sicurezza, privacy eccetera. La novità dirompente della sfera pubblica digitale, l’agorà del XXI secolo, impone di interrogarsi sulla scelta stessa di ciò che della esuberante produzione digitale vale la pena conservare a memoria di tutti – insisto: cosa custodire nell’ambito della memoria collettiva? Salvare tutto quanto? Impossibile, forse inutile. La tesi che vorrei caldeggiare è che nel caso specifico di questa guerra anche i tweet di Twitter – tutti i tweet, anche quelli di parte, anche i più deliranti – vadano già ora messi da parte, catalogati e “salvati”. Altrimenti la memoria critica di questo ignobile conflitto sarà piena di piccoli e grandi buchi neri.
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[…] Sui complessi rapporti tra questa guerra, informazione, comunicazione e propaganda si rimanda a Michele Mezza, La Luna di Kiev e le ombre della Net-war, “Democrazia futura”, 28 Ottobre 2022. Effetti della mediamorfosi. È l’introduzione al nuovo libro dell’autore, “Net-War. Ucraina: come il giornalismo sta cambiando la guerra“. […]