Appunti di una scrittrice-traduttrice sempre in viaggio
di Margherita Carbonaro
Immagine di copertina: cortecce di betulle, fonte.
A Riga in marzo è ancora tardo inverno, sugli alberi non c’è nemmeno quella velatura di verde che in Germania si intuiva già nei punti in cui la nebbia, sulla pianura attorno all’aeroporto di Monaco, si diradava un po’. Dopo la Polonia coperta di pecorelle che arrivate sul mare si addensano in una coltre compatta, appare la costa del golfo di Riga. L’acqua plumbea, la striscia pallida di sabbia e dune e dietro a questa il verde delle pinete, ancora cupo e spento. E poi la foce della Daugava, che spacca la terra e collega il mare alla città.
Binari
La prima cosa che vedo uscendo dall’aeroporto – al posto del semicerchio di bandiere lettoni, metà delle quali sparite già da due anni per fare spazio a quelle ucraine, una bandiera bordeaux-bianco-bordeaux alternata a una gialloazzurra – è il cantiere della Rail Baltica. Una ferrovia, a scartamento europeo, unirà finalmente le tre capitali baltiche e arriverà a Varsavia. Viaggiava fin qui un tempo il Nord Express che con i suoi vagoni di lusso collegava Parigi e San Pietroburgo, passando per Riga. Il romanzo Homo Novus dello scrittore lettone Anšlavs Eglītis (nato a Riga nel 1906 e morto in esilio a Los Angeles nel 1993) si apre alle 18.40 del primo settembre dell’anno 193…, quando due treni entrano contemporaneamente nella stazione centrale di Riga. Uno arriva da Parigi, l’altro da una cittadina della Livonia. Ne scendono due giovani, più o meno della stessa età e della stessa statura. Il passeggero del Parigi-Berlino-Riga, vestito di un morbido cappotto a righe «saltò sul marciapiede con un’elasticità tale che nemmeno un granello di cenere cadde dalla sigaretta che teneva nella mano elegante, avvolta in un guanto di pelle traforata, di un genere mai visto a Riga». L’altro giovane, il provinciale, che indossa un abito di stoffa tessuta in casa, scende dal suo vagone con movenze lente e goffe e, anziché chiamare un facchino, trascina pesantemente i suoi fagotti. Appesa a una cinghia che gli pesa sulla spalla, dondola una cassetta di colori. Subito, già in stazione, iniziano per il giovane provinciale le avventure che lo introducono nella bohème della “piccola Parigi” sul Baltico. Appena pochi anni dopo l’arrivo a Riga dei due, il Nord Express smette di viaggiare. Nel 1940 la Lettonia viene occupata dall’Unione Sovietica, i binari di scartamento europeo sono sostituiti con quelli di scartamento russo. 1.435mm contro 1.520mm. Il ferro dei binari non risponde più alla calamita di Parigi, ma è forzatamente attratto da quella di Mosca. Ancora oggi, quegli 85 mm di differenza segnano in buona parte l’isolamento ferroviario del Baltico dal ventre d’Europa. Rail Baltica sarà completata nel 2030. Speriamo.
Bandiere
Bandiere ucraine: da due anni sono incollate sulle porte di autobus, tram, filobus. I rettangoli gialloazzurri sui vetri hanno sempre colori brillanti. Quando un adesivo gialloazzurro si consuma, viene sostituito?
Sulle colonne pubblicitarie sparse per la città si legge: gli ucraini vogliono tornare a casa / gli ucraini vogliono la vittoria, la vittoria, la vittoria / gli ucraini saranno felici quando ci sarà pace. Un recente sondaggio del centro di ricerca Norstat, in collaborazione con Latvijas Sabiedriskie Mediji, mostra che la maggioranza degli abitanti della Lettonia ritiene che l’aiuto prestato finora all’Ucraina debba rimanere stabile, o addirittura essere aumentato. Ma tra la minoranza dei cosiddetti russofoni, la maggioranza vorrebbe che l’aiuto venisse ridotto. Sinteticamente: 32% vuole che il sostegno rimanga immutato; 20% vuole che aumenti; 12% vuole che aumenti in maniera molto significativa; 8% vuole che venga ridotto un po’.
Bandiere lettoni: oggi sono spuntate su normali edifici e angoli di strade, anche dove generalmente non sono esposte. In cima vi sono legati nastri neri, a lutto. Settantacinque anni fa, il 25 marzo 1949, partiva l’operazione Priboj (in russo, onda di marea): quasi novantacinquemila estoni, lettoni e lituani furono deportati in Siberia, perché accusati di essere nemici del popolo e kulaki. I lettoni prelevati dalle loro case e caricati su vagoni chiusi erano più di quarantaduemila, e il 73% di loro erano donne nemiche del popolo, bambini e ragazzi nemici del popolo inferiori ai sedici anni.
Jeans
In molti cinema danno in questo momento Padomju džinsi (Jeans sovietici) –sottotitolo: i pantaloni che hanno cambiato il mondo) –, serie televisiva lettone presentata all’ultima Berlinale. Vado a vederne gli episodi 3, 4 e 5 in un cinema multisala vicino al grande mercato, con distributori automatici di popcorn nella sala centrale. Non aver visto i primi due episodi mi priva dell’antefatto, ma la cosa in sostanza non importa. Siamo alla metà degli anni 1970, in piena stagnazione brežneviana. L’eroe della serie è un ragazzo ricciuto, innamorato di una giovane regista finlandese impegnata, tra mille ostacoli, a mettere in scena un suo spettacolo a Riga. All’inizio dell’episodio il ragazzo si trova già in una clinica psichiatrica per aver commesso qualche – presumibilmente ridicolo – crimine ideologico. Lui e i suoi compagni vengono messi a cucire uniformi di ogni tipo, il che fa nascere al ricciuto eroe l’idea: cucire di nascosto, nottetempo, jeans, farli uscire in qualche modo dalla clinica e venderli al mercato nero per cifre che, essendo una merce estremamente ambita, sono da capogiro. Grazie alla ragazza finlandese i compari riescono a procurarsi stoffa e bottoni. Con la scusa di dover trovare al più presto grandi quantità di stoffa rosso rivoluzione con cui addobbare la scena, la ragazza va in Finlandia e importa, ben nascosti sotto il rosso, rotoli e rotoli di stoffa jeans. L’affare parte. Parte e funziona, saltano fuori ostacoli, episodi divertenti e ben ritmati. Il tipo ricciuto trova un antagonista in un coetaneo, ugualmente innamorato della graziosa finlandese, un giovane ammodo e di belle speranze che sta facendo, un po’ goffamente, il suo apprendistato presso il KGB. La serie è trilingue: inglese (quando c’è la ragazza finlandese), lettone e russo. Come nelle strade di Riga, le lingue risuonano contemporaneamente. Ho trovato interessante il fatto che molti dei personaggi passino in maniera del tutto naturale da una lingua all’altra e non abbiamo un percettibile accento in nessuna delle due lingue. Buoni e cattivi parlano ora lettone ora russo, e non li si può assegnare univocamente all’una o all’altra comunità di appartenenza.
Il regista di Padomju džinsi, Staņislavs Tokalovs, è stato premiato in Lettonia non solo come autore della sceneggiatura della serie televisiva, ma anche per il suo documentario Viss būs labi (Tutto andrà bene, 2023). Tokalevs, che proviene da una famiglia di madrelingua russa, nel corso di cinque anni ha ripreso momenti e scene della vita quotidiana di tre generazioni di donne: la propria nonna, pluridecorata veterana di guerra arrivata dalla Russia in Lettonia nel 1955 “alla ricerca di una vita migliore” – in un paese del quale verosimilmente ignorava, e forse continua a ignorare, il passato, e che per lei era soltanto patria sovietica – la madre e infine la sorella, giovane artista. Il personaggio principale è senza dubbio la nonna, che il 9 maggio indossa la giacca con le medagliette sovietiche di latta tintinnante e, accompagnata dalla figlia, va al monumento alla vittoria a ricevere i fiori e gli omaggi riservati ai veterani della Grande guerra patriottica. È un bagno di nostalgia sovietica. Se non fosse per te, noi non ci saremmo, le dice qualcuno a un certo punto. Molto di quello che appare nel documentario già non esiste più. Lo stesso monumento alla vittoria (dell’Armata rossa) è stato abbattuto nell’agosto 2022, qualche mese dopo l’attacco russo all’Ucraina. Quel che per gli uni era vittoria e trionfo – e quindi festa – per gli altri era un segno di occupazione e repressione della propria identità e cultura (e quindi di dolore). Il documentario è un tentativo di mostrare dall’interno realtà e verità della minoranza russofona in Lettonia, o più precisamente della sua generazione ormai anziana. Ogni vita contiene la propria verità, più o meno condivisa dal mondo circostante. E che nello stesso spazio diverse personali verità siano in contrasto, questa è la storia della Lettonia degli ultimi ottant’anni.
Via della nebbia
In questi giorni, quando incontro amiche e amici, non me la sento di porre la domanda, stupida e scontata: hai paura?
In un’edicola, coglie la mia attenzione un giornale in lingua russa che dice: tranquilli, non ci sarà guerra. Lo prendo in mano, vado rapidamente alla pagina a cui rimanda il titolo, leggo: Il nostro Ministero della Difesa garantisce che… Lo richiudo e lo ripongo sull’espositore.
Oggi (un oggi precedente a quello in cui – vedi sopra – erano issate le bandiere con i nastri neri a lutto) è il diciassette marzo, domenica di elezioni in Russia. Anche qui a Riga gli oppositori si sono radunati davanti all’ambasciata russa, di fronte alla quale, appeso sulla facciata del museo di storia della medicina, Vladimir Totenkopf Vladimirovič (Putin) continua a campeggiare e a riflettersi sulle finestre della propria rappresentanza diplomatica. Digrigna i denti ormai da più di due anni, dal marzo 2022, lui che si prepara a digrignarli aggrappato al potere finché morte non ve lo separerà.
Salgo sull’autobus numero tre, diretto al quartiere di Bolderāja. Come sempre, voglio vedere almeno una volta il mare prima di ripartire da Riga. Questa volta decido di non prendere il treno locale e di non andare sulle spiagge di Jūrmala ma di vedere il mare in questo satellite della città, dove qua e là le vecchie case di legno sono sopravvissute all’urbanizzazione sovietica. Le epoche convivono, l’una accanto all’altra ma senza mescolarsi, anche nei nomi delle strade; le une riportano al mare, le altre all’epopea gloriosa, e stracciona nei suoi esiti, della produzione industriale socialista. Qui le strade si chiamano via dei Silicati e via della Nebbia, via del Quarzo e via dei Marosi, via del Tessuto pettinato e via del Pescato, via dei Piallacci e via dei Merluzzi. Chi avrà mai scelto il nome a via della Nebbia?
Il quartiere satellite dista una decina di chilometri da Riga e ci si arriva dopo aver abbandonato gli ultimi brandelli della città e attraversato poi una terra di nessuno, brughiera giallo spento di fine inverno. Accanto a me siede un uomo anziano, corpulento, la pelle del viso grossolana e rossastra. Per i quaranta minuti del tragitto tiene gli occhi puntati davanti a sé, l’espressione diffidente e biliosa. Se mi giro leggermente verso di lui, i miei occhi cozzano contro una stanghetta dorata, larga ma sottile, di un metallo paccottiglia che collega le orecchie alla parte anteriore del cranio impassibile. Una mano estrae dalla tasca interna del giaccone un passaporto bordeaux sul quale c’è scritto Rossijskaja federacija, (Russian Federation). Evidentemente il tizio – forse un elettore fedele al suo pastore? – è appena andato a votare alla sua ambasciata. Il passaporto è nuovo di zecca. Chissà se l’uomo è uno di quelli che in anni recenti hanno acquisito la cittadinanza russa (prevalentemente per ottenere vantaggi pensionistici, visto che in Russia si va in pensione prima che in Europa) e ai quali è stato richiesto, in seguito all’aggressione russa all’Ucraina, di superare un test che dimostri una conoscenza a livello elementare della lingua nazionale, il lettone, per vedere confermato il proprio permesso di soggiorno illimitato in Lettonia, con tutte le garanzie a ciò legate, compresa l’assistenza sanitaria e la pensione lettone (che anche i cittadini russi in Lettonia percepiscono una volta raggiunta l’età giusta). Molti hanno sostenuto e passato il test, diverse centinaia di persone no, e verosimilmente non lo faranno mai, forse in attesa di compiere i settantacinque anni che garantiscono l’esenzione dall’esame. Finora nessuno è stato comunque espulso dal paese.
Mentre l’autobus attraversa l’estrema periferia e si prepara alla brughiera, mi tornano in mente versi del poeta lettone Aleksandrs Čaks (1901-1950) che ho provato a tradurre nei giorni scorsi. Nei decenni della Lettonia indipendente tra le due guerre Čaks è stato il cantore di Riga, della città, dei suoi miasmi e odori, della sua anima popolare, il cantore della nomale, cioè dei margini, dei luoghi dove ai suoi tempi la città si sfilacciava, territorio già non più del tutto campagna ma ancora non davvero urbanizzato.
Lì Čaks incontra personaggi come quel vecchietto con cui a volte passa il tempo: «… Sediamo. / Mangiamo il sole… Pensieri senza tempo. / Come un asciugamano, la vastità avvolge il capo riarso. // “Sicuramente” / dice il vecchio, “ti aspettano gli amici. / Ma è meglio che tu asciughi la rugiada alle foglie» (Tā labāk, “Meglio così”, dalla raccolta Zem cēlās zvaigznes, “Sotto la nobile stella”, 1946).
Čaks è un cantore appassionato e struggente, ma la sua emozione e il suo pathos hanno sempre in sé un controcanto ironico e leggero. Una sua poesia famosissima si chiama – ed ecco la nebbia! – Atzīšanās (Confessione), e si apre con questo verso: Miglā asaro logs, “Lacrima la finestra nella nebbia”. È dedicata a una misteriosa ragazza a cui i filologi danno la caccia dal 1930, ed è stata musicata da un ignoto autore. Qui una versione cantata da Ainars Mielavs.
«Terra / verde, rotonda terra» dice un’altra poesia di Čaks, “Miracolo” (Brīnums, dalla raccolta Iedomu spoguļi, “Gli specchi delle illusioni”, 1938), «quando voglio accarezzarti / compro una palla di gomma / in una bottega / dove davanti ai soldi sorride la cassiera. // Poi esco per le strade, / la palla di gomma sopra la testa, / sorridente, / felice.» E così il flâneur con la palla-terra sulla testa cammina per le strade, incurante dei commenti di chi vede in lui un pazzo, cammina sotto il sole e sotto la pioggia, «pulito, lucente, umido / come se con la pioggia l’amarezza / si fosse persa in un tombino, / io sono / solo, / e credo al miracolo».
Čaks aveva un bel testone tondo e pelato, che proprio oggi fa da perfetto antidoto al cranio ghignante di Vladimir Totenkopf Vladimirovič. Con la sua palla sulla testa lo immagino aggirarsi per le bancarelle del povero mercato di Bolderāja, che vendono pesce affumicato e detersivi scontati, scarpe di plastica e stoffe di petrolio, ma anche miele. Non si sente parlare altro che russo qui. Il satellite Bolderāja è riuscito a un certo punto a schizzare fuori dall’orbita del presente e ad agganciarsi a un’orbita d’oltre brughiera, e qui compie in solitudine i suoi giri.
Dopo aver chiesto a diverse persone, in russo per passare il più possibile inosservata, come si arriva al mare e quanto dista dal mercato, e scoperto che è troppo lontano per andarci a piedi, chiedo a Čaks con la palla sopra la testa di accompagnarmi alla fermata dell’autobus. È al di là dell’incrocio, vicino a via della Nebbia. Si passa davanti a un piccolo supermercato, poi a un banco dei pegni e a una lavanderia, si procede lungo un tratto di marciapiede su cui si affacciano vecchie case di legno, dietro le quali si alzano i casermoni sovietici. Quando l’autobus arriva, Čaks con la palla sopra la testa si inchina leggermente e scompare.
Il mare oggi è più calmo di una pozzanghera, un cobalto perfettamente liscio. Alle sue spalle, gli alberi, che mi portano all’ultima parola del mio diario di marzo.
Betulle
Fine marzo a Riga è già tempo di succo di betulla. È linfa che viene estratta, solo all’inizio della primavera, inserendo nel tronco a scaglie bianche una cannula. È leggermente opaca e non ha un sapore marcato, sa di acqua in cui senti un fermento che la trasforma e si trasforma, è fresca ma contiene già la propria decomposizione.
Di Margherita Carbonaro leggi anche: Sinfonia di esperienze lettoni. Brevi note per orientarsi nel romanzo Stikli.