Il Secolo della Turchia e la nuova stagione di espansione neo-imperiale – una riflessione a caldo
di Rachele Botti
Immagine di copertina, Istanbul poster, fonte.
Stavolta anche la scenografia è cambiata. Per celebrare la vittoria, Recep Tayyip Erdoğan non ha parlato come in passato dal balcone della sede del suo partito, l’AKP. Ma dal palazzo presidenziale che domina Ankara come una fortezza impenetrabile. Una cornice sontuosa per dichiarare ufficialmente aperto il secolo della Turchia. La nuova conquista, come l’ha definita. Riannodando con la solita disinvoltura le trame della storia per piegarle ai propri disegni.
A cento anni dalla fondazione della Repubblica, e dopo aver scardinato pezzo dopo pezzo i principi laici e secolaristi imposti dal padre della patria Mustafa Kemal Ataturk, Erdoğan punta a saldare passato e futuro, riconciliando la Turchia col suo passato imperiale. Un’ambizione che – in un Paese dove il nazionalismo si respira come l’aria – fa man bassa di consensi ben oltre le linee di demarcazione dei partiti.
Con Erdoğan l’inaffondabile ha vinto un sistema di potere che si è fatto Stato, che ha asservito la magistratura, liquidato l’indipendenza della banca centrale, messo il bavaglio ai mezzi di informazione (guarda qui e leggi qui e ancora qui), sbattuto in carcere oppositori e giornalisti scomodi (leggi qui e vedi qui. Ma tutto questo non basta a spiegare come il Reis sia riuscito a sopravvivere politicamente a una crisi economica devastante, e ai contraccolpi di un terremoto che ha fatto oltre cinquantamila vittime e fatto emergere, insieme alle negligenze e ai ritardi nei soccorsi, anche tutte le falle di uno sviluppo fittizio, gonfiato da un’edilizia selvaggia. Come un giocoliere Erdoğan è riuscito a tenere insieme deriva autoritaria e consenso popolare. Dagli inizi della sua arrampicata al potere, partita nei circoli politici islamisti del quartiere operaio di Istanbul dov’è nato, i suoi sostenitori non hanno mai smesso di considerarlo “uno di noi”.
Cartoline tradizionali turche fatte a mano, fonte.
Di fronte si è trovato un’alleanza di partiti d’opposizione cementata solo dalla volontà di scalzarlo. E che ha iniziato subito a sfaldarsi.
Al punto che mentre lui ha già lanciato la campagna per le amministrative del 2024 con l’obiettivo di riprendersi il controllo delle grandi città, il cosiddetto “tavolo dei sei” rischia di svuotarsi. Resta invece caparbiamente al proprio posto lo sfidante Kemal Kilicdaroglu, leader del CHP, che aveva promesso una “primavera di libertà, e sedotto politici e analisti occidentali con la sua etichetta di Ghandi turco. Ma che alla vigilia del ballottaggio è riuscito a inimicarsi una parte degli elettori e di gelare i curdi battendo la grancassa nazionalista e xenofoba e scendendo a patti con la formazione di estrema destra Zafer.
Se i risultati delle urne hanno restituito il volto di una Turchia fortemente divisa e polarizzata, sarà l’economia boccheggiante il terreno sul quale Erdoğan si giocherà la stabilità del terzo mandato. In campagna elettorale ha potuto contare sui finanziamenti dei Paesi del Golfo e su una dilazione nei pagamenti del gas russo per distribuire sussidi e prebende a raffica e tenersi stretto il sostegno delle fasce più deboli. D’ora in poi si muoverà senza rete. E per evitare il collasso dovrà rinnegare la scelta controcorrente caparbiamente seguita finora: fronteggiare l’inflazione tagliando i tassi d’interesse.
Cartolina Istanbul (Costantinopoli), panorama, fonte.
Nuvole all’orizzonte che Erdoğan proverà a diradare da un lato con una nuova stretta alle libertà sociali e politica, dall’altro abbagliando i turchi col lustro di un rinnovato e spericolato attivismo sulla scena internazionale. Barcamenandosi tra il sostegno all’Ucraina e il legame stretto con Putin, egli punta a rilanciare quel ruolo di mediatore che lo ha reso interlocutore indispensabile per un Occidente che non lo ama ma non può fare a meno di lui. I media turchi hanno già pomposamente annunciato che tra i primi faccia a faccia in programma per il presidente ritrovato ci saranno il capo del Cremlino e Zelensky.
Battitore libero nella Nato Erdoğan, anche dopo aver agguantato la vittoria, continua a tenere in scacco l’Alleanza bloccando l’adesione della Svezia. In una telefonata di congratulazioni Biden, che da candidato alla Casa Bianca lo definì un dittatore e da presidente lo ha ostentatamente tenuto alla larga, gli avrebbe proposto un baratto: si alla vendita dei caccia F16 – bloccata da quando il Reis decise l’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400 – in cambio della luce verde a Stoccolma.
Sfumature, nuove pedine da muovere per Erdoğan che in questa stagione di espansione neo-imperiale si proietta con rinnovata baldanza dai Balcani (vedi qui e in precedenza qui) al Caucaso (vedi qui e in precedenza qui e ancora qui), all’Ucraina (vedi qui e in precedenza qui e ancora qui e infine qui) fino all’Asia centrale (vedi qui). Dal Mediterraneo — dove la sua sfida per lo sfruttamento delle risorse energetiche chiama in causa anche interessi italiani — fino al Medioriente (vedi qui e in precedenza qui) e all’Africa (vedi qui e in precedenza qui).
Turchia. Mar di Marmara, Istanbul, fonte.