Il Festival del Cinema di Cracovia, specchio dei tempi che cambiano nel racconto di Massimo Tria
Il Festival del Cinema di Cracovia esiste da ben sessantatré anni. Si può senz’altro affermare che esso è l’evento cinematografico più importante del Paese, ma non si sa bene chi ne sia stato l’ideatore, come viene candidamente confessato in un bel volume dedicato alla sua storia, di cui l’energico e talentuoso Direttore Krzysztof Gierat ci ha fatto dono e che qui useremo per tracciarne l’interessante evoluzione.
Da un paio di decenni ho il piacere di occuparmi professionalmente di cinema polacco, e da un paio d’anni ho la fortuna di poter visitare Cracovia proprio in corrispondenza di questa sua prestigiosa kermesse filmica. Ormai da un ventennio essa si svolge sempre a cavallo fra maggio e giugno, offrendo così agli appassionati uno dei momenti migliori per essere ospiti della meravigliosa città, che in questo periodo è illuminata da un sole temperato e può sfoggiare con orgoglio le varie sfumature di verde dei suoi Planty. ottimo rifugio e spazio di riflessione fra una visione e l’altra. A due passi dalla sede principale, in più, stanno costruendo un bel parco dedicato a Wisława Szymborska, che nei prossimi anni potrà simbolicamente fornire un ulteriore spazio di meditazione fra le varie proiezioni.
In maglietta gialla, il Direttore del Festival Krzysztof Gierat con Massimo Tria per le strade del quartiere di Kazimierz, Cracovia
La prima edizione si svolse comprensibilmente in sordina, nel lontano 1961, il che fa del festival uno dei più longevi su tutta la scena mondiale. Esso iniziò umilmente sotto la denominazione di “Festival Polacco dei Cortometraggi”, per aprirsi tre anni dopo al cinema internazionale. Al giorno d’oggi conta quattro sezioni competitive: quelle dei cortometraggi e dei documentari internazionali, quella tipologicamente mista dedicata solo ai film polacchi, che offre dunque una selezione dei migliori corti, documentari e film d’animazione prodotti nel Paese nell’anno appena trascorso, e infine una sezione specifica, DocFilmMusic, dedicata ad opere di tematica musicale.
Il valore della manifestazione, guidata ormai saldamente da diversi anni dal summenzionato Gierat, la ha portata a diventare uno dei festival che qualificano a partecipare alla selezione per i Premi Oscar, sia per la categoria dei cortometraggi che per i documentari, ma per arrivare al prestigio che la contraddistingue si è dovuti comprensibilmente passare attraverso tutte le fasi e le difficoltà della storia cultuale e politica polacca degli ultimi sei decenni, motivo per cui non è privo di interesse ricostruirne qui alcune fasi salienti.
Similmente ad altri festival del blocco socialista (Mosca, Karlovy Vary…), anche quello di Cracovia si offriva all’inizio come vetrina della produzione nazionale, non del tutto scevra da intenti propagandistici e secondi fini strategici, ma allo stesso tempo anche come piattaforma di dialogo informale con gli ospiti stranieri. Non diversamente da Cannes o Venezia, il côté turistico-conoscitivo accompagnava fin dai primi anni Sessanta i programmi delle proiezioni, così che le bellezze della città e dei dintorni (dal castello del Wawel alle miniere di sale di Wieliczka) venivano programmaticamente offerte a critici e delegazioni di ospiti per alleggerire le fatiche delle visioni. Da un lato dunque film educativi e prodotti della scuola polacca d’animazione promuovevano i successi artistici della democrazia popolare, ma ciò non significava assolutamente una chiusura autarchica in senso propagandistico, tanto che il festival collaborava saldamente con simili manifestazioni occidentali, come il prestigioso festival tedesco di Oberhausen, in una sorta di gemellaggio e di dialogo attraverso le cortine che permise alla città polacca di mantenere sempre saldi legami artistici e diplomatici con il “nemico occidentale”. È degno di nota, per esempio, che abbiano preso parte al concorso cracoviano autori come Pier Paolo Pasolini, Mike Leigh o Werner Herzog.
L’arrivo nel dicembre 1970 di Edward Gierek a Primo segretario del Partito al posto del suo predecessore Władysław Gomułka favorì negli anni Settanta anche in ambito festivaliero un ulteriore breve “disgelo”, che avrebbe portato Cracovia ad essere fra i palcoscenici più adatti ad evidenziare la grande scuola polacca del documentario, fra i cui nomi non possiamo non citare almeno Krzysztof Kieślowski o Marcel Łoziński, entrambi ospiti della manifestazione. Negli anni Ottanta, mentre il rafforzamento dei movimenti sindacali e la stretta militare del generale Jaruzelski disegnavano un campo di forze che avrebbe segnato fortemente la Polonia, il festival provava a mantenere degli spazi di indipendenza artistica. Si pensi, per esempio, che accanto agli obbligatori documentari che omaggiavano Lenin e alle inevitabili delegazioni ufficiali dai paesi socialisti, si potevano intravvedere nelle sale della città anche i prodotti dell’avanguardia statunitense (ricordiamo anche solo i film di Stan Brakhage o Maya Deren, mostrati nei primi anni Ottanta). Vero è che dopo l’istituzione della legge marziale alcuni film più scomodi furono esclusi dai programmi ufficiali, ma ciò non evitò che essi venissero comunque proiettati in modo più o meno clandestino in occasioni e collocazioni più decentrate rispetto alla sala cinematografica principale, quella del cinema Kijów, a due passi dal Museo Nazionale, che ancora oggi svolge un ruolo fondamentale nella presentazione degli eventi più importanti.
A ulteriore testimonianza del fatto che l’evoluzione della manifestazione è spesso stata cartina di tornasole dei sommovimenti storici, una certa “aria di perestrojka” si poté notare nel 1987, quando fu presentato un documentario sovietico sul disastro di Černobyl’, con la sala del Kijów piena in ogni ordine di posti; mentre l’edizione del 1989 si svolse in quella elettrizzante atmosfera di cambiamento che accompagnò le prime elezioni libere. Il cambio di regime portò anche ad importanti mutamenti strutturali. Nei primi anni Novanta la lunghezza dei film in concorso superò quella del cortometraggio classico e venne portata fino alla durata di un’ora. Al contempo, l’organizzazione del Festival veniva “devarsavizzata” e la struttura gestionale trasferita dalla capitale (che a lungo aveva “ministerialmente” imposto la sua ombra centralizzatrice) e riassegnata a strutture locali.
Il manifesto ufficiale del festival nel 1992 vide le stelle dell’Unione Europea bene in vista sopra il drago, il simbolo della città, che rappresenta anche uno dei premi principali. E mentre in quel mese di giugno per le strade di Cracovia si svolgeva quello che fu chiamato il “Mese Europeo della Cultura”, indubbiamente iniziava una nuova fase, democratica e liberale, pienamente europea, della manifestazione.
Gli anni Duemila videro l’affermazione definitiva di un nuovo Premio (istituto invero già nel ’98), il “Drago dei Draghi” (Smok Smoków) che prevede ancora oggi un omaggio speciale e una retrospettiva dedicata ad un autore affermato del campo del documentario o dell’animazione. Giusto per dare un’idea dell’importanza dei premiati, ricorderemo Jan Švankmajer (ospite nel 2001), maestro indiscusso del surrealismo cecoslovacco, il russo Jurij Norštejn (nel 2005), autore di capolavori assoluti dell’animazione come Il riccio nella nebbia o Il racconto dei racconti; Helena Třeštíková (2012), maestra praghese della registrazione di lunghe storie familiari; o ancora Sergej Loznica (2018).
Massimo Tria all’ingresso del MOS, centro nevralgico del Festival
E si arriva così alle recenti edizioni, nelle quali da qualche anno le sezioni di cui sopra sono affiancate da alcuni importanti eventi di networking e di mercato, come è ormai regola nei principali festival europei che si vogliano offrire anche come piattaforme produttive e di sviluppo strategico. Vi vengono presentati dei progetti cinematografici in progress. Programmatori festivalieri, produttori ed esperti “decision maker” possono seguire opere in fieri e scambiare liberamente opinioni con i loro autori. Questi eventi di “Industry” offrono ovviamente un focus privilegiato proprio sulla produzione locale, di modo che ai cosiddetti pitching – le presentazioni dei materiali informativi e delle prime scene dei film in preparazione – si può entrare direttamente in contatto con autori e produttori polacchi che sperano di portare nei mesi successivi i propri “prodotti finiti” sui vari palcoscenici mondiali.
A titolo elogiativo va rilevato che nelle ultime due edizioni la scena locale ha manifestato una ammirevole vicinanza nei confronti degli ucraini, vittime della barbara invasione russa e dunque impossibilitati a svolgere il proprio ordinario lavoro culturale, ivi compresa l’attività festivaliera. L’anno scorso era stato ospitato proprio a Cracovia il Docudays UA, principale manifestazione cinematografica ucraina dedicata ai diritti umani, e gli spettatori avevano potuto sentire e vedere gli artisti fuggiti dalle bombe russe, costretti ad interrompere riprese, realizzazione di nuove opere, e ostacolati quasi totalmente nella difesa della propria produzione cinematografica. Anche quest’anno diverse opere ucraine, soprattutto nella dimensione del corto, hanno trovato spazio nelle varie sezioni, e molti interessanti progetti in via di sviluppo sono stati presentati da gruppi creativi di Kyïv e dintorni, capaci di impegnarsi coraggiosamente nella promozione e difesa della propria cultura, al momento sotto una minaccia mortale.
Fra i più interessanti film di argomento polacco che abbiamo avuto modo di vedere quest’anno va ricordata una coppia di documentari fra di loro strettamente legati, in quanto dedicati ad un Maestro del cinema ancora troppo poco noto in Italia. Abbiamo in mente Wojciech Jerzy Has (l’Istituto Polacco di Roma nel 2007 ebbe il merito di dedicargli l’unica retrospettiva italiana); e l’artista della macchina da presa che spesso gli offrì i suoi servigi, il cameraman Mieczysław Jahoda.
Il primo film da segnalare è Rysopis znaleziony po latach (Description Found Years Later) di Sławomir Rogowski e Stanisław Zawiśliński. Ricostruisce la lunga carriera di Has, amato anche da Martin Scorsese e noto per alcuni capolavori come Manoscritto trovato a Saragozza e La clessidra, che si iscrivono in una carriera spesso ispirata (come per le due pellicole succitate) alla letteratura polacca. Come degno pendant di questo ritratto si propone il film Mieczysław Jahoda. Sztukmistrz z Krakowa (Mieczysław Jahoda. Wizard from Krakow) con cui Wiktor Skrzynecki inquadra l’attività del mago della fotografia, che oltre a quelle di Has ebbe modo di illuminare altre opere fondamentali, come Krzyżacy (I cavalieri teutonici) di Aleksandr Ford. Le due opere erano inserite in una interessantissima sezione retrospettiva, il “Panorama del documentario polacco”, all’interno della quale era possibile approfondire, fra gli altri: i retroscena dell’attività dello Stary Teatr di Cracovia (Stary – The Old, di Tomasz Śliwiński e Magda Hueckel): o ancora la personalità e operosità del guru della sci-fi, Maciej Parowski (Fantastyczny Matt Parey – Fantastic Matt Parey, di Bartosz Paduch).
Il concorso riservato alla produzione nazionale offriva ben quarantuno titoli, e ha visto vincitore Twarze Agaty (Faces of Agata), di Małgorzata Kozera, che si è portato a casa il “Lajkonik d’Oro” (il Lajkonik è il cavaliere in abiti orientali legato al folklore cracoviano). Seguivamo il film già dalle sue fasi intermedie (era stato presentato l’anno scorso al Mercato per gli addetti): la storia travagliata di Agata di Masternak, artista costretta a decine di dolorose operazioni per combattere il cancro che ha attaccato il suo volto, è una di quelle che non lasciano indifferenti.
Un Premio Speciale è andato a Paweł Hejbudzki, che con il suo Wiraż (Early Apex) narra la storia di alcuni giovanissimi ragazzini impegnati in gare di go-kart. Va lodata in particolare l’attività professionale del giovane produttore del film, Wojciech Karubin, che con la sua compagnia “Movie Mates” ha presentato anche altri progetti molto promettenti, fra i quali uno riguarda una coproduzione italo-polacca, da girare anche in Toscana, sullo scultore Igor Mitoraj (sull’artista vedi qui e qui). Non perfettamente riuscito, ma toccante per la sua spinosa tematica, era poi Sad dziadka (Grandpa’s Orchard), con cui Karol Starnawski (ascolta il podcast-intervista in polacco di Radio Kraków Kultura) ha cercato di trattare in modo delicato e non propagandistico uno dei “tabù” dei rapporti polacco-ucraini, le tremende violenze di cui fu testimone la Volinia durante la seconda guerra mondiale (La trama: la famiglia di Karolina parlava del massacro avvenuto in Volinia durante la Seconda guerra mondiale, in cui furono uccisi i suoi parenti, solo a porte chiuse. Per scoprire la verità sui suoi antenati, si reca lei stessa in Volinia. Ad accompagnarla c’è il cameraman ucraino Oleksandr, anche lui desideroso di conoscere la storia di cui hanno fatto parte i suoi familiari. Insieme attraversano le zone dove un tempo vivevano i polacchi, ma dove il paesaggio è ora costituito da campi vuoti. Parlano con i residenti, alcuni dei quali ricordano ancora i tragici eventi del 1943…).
Fra i cortometraggi in concorso vogliamo evidenziare almeno due opere d’animazione che sono andate a premio (ricordiamo che questo festival agevola l’entrata nella shortlist per gli Academy Awards): Zima, di Tomek Popakul e Kasumi Ozeki, che si è portato a casa il Drago d’Oro; e Mariupol’. Sto nočej (Mariupol. A Hundred Nights) con cui l’ucraina Sofija Mel’nyk ha meritatamente ottenuto uno dei tre Draghi d’Argento. Soprattutto quest’ultimo ci ha toccato, nella sua forma di cupo horror d’animazione che narra la tragedia di Mariupol’, a testimoniare ancora una volta l’attenzione estrema del festival per l’attualità (fra l’altro, ovviamente, nessuna opera di produzione russa è stata inclusa nel programma).
Non ha portato troppa fortuna all’unica partecipante polacca al concorso principale, Aniela Gabryel, la sua decisione di seguire la storia del famoso “Workcenter” creato a Pontedera da Jerzy Grotowski. Il suo Radical Move disegna quasi come una setta il gruppo di attori sperimentali guidati dall’erede designato del grande artista polacco, Thomas Richards. Il Corno d’Oro come miglior documentario della sezione competitiva internazionale è però andato a Nick Read еd Ayse Toprak, per il loro Mam na imię Szczęście (My Name Is Happy), che ricostruisce la lotta della cantante curda Mutlu Kaya, vittima di violenza e combattente per il proprio riscatto femminile ed artistico.
Aniela Gabryel e la troupe di Radical Move durante l’incontro con il pubblico
Per concludere ci permetteremo alcune osservazioni sparse, su toni più personali. Innanzi tutto gli spazi di proiezione: dall’unico grande cinema di rappresentanza che ha visto negli anni del regime sfilare le più varie delegazioni ufficiali si è passati oggi ad almeno una decina di sale differenti, disseminate in varie parti della città, dal Kino pod Baranami situato sul Rynek Główny, al delizioso cinema Mikro, piccolo ma storicamente importante. Oltre a testimoniare la crescita e la funzionalità strategica del festival, questa decentralizzazione è il modo giusto per rendere tutto il tessuto urbano partecipe dell’evento e permettere agli eventuali nuovi ospiti di scoprire vari angoli della città. Gli addetti ai lavori hanno comunque la possibilità di visionare buona parte dei film su una piattaforma online dedicata.
Quanto alla partecipazione italiana, potrebbe essere più nutrita, soprattutto per quel che concerne i critici. Tuttavia ben otto erano i film del Belpaese sparsi nelle varie sezioni, e alcune collaborazioni sono piuttosto promettenti, soprattutto quelle con il Trieste Film Festival e l’Istituto Polacco di Roma, il che fa ben sperare anche per il futuro di quei progetti di cui sopra che vedono un incrocio culturale italo-polacco.
Da un punto di vista più specificamente “politico” va detto che, in sintonia con un corretto atteggiamento delle istituzioni culturali nazionali, anche il Festival di Cracovia ha dimostrato mano ferma e sicurezza diplomatica nell’orientare la propria politica culturale dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. Non è stato concesso alcuno spazio alle istituzioni ufficiali del Paese invasore, e fra le proiezioni da ricordare ci sono di sicuro quella che ha visto l’olandese Jessica Gorter presentare in prima mondiale il suo prezioso The Dmitriev Affair, che ricostruisce la scandalosa persecuzione operata dal sistema giudiziario russo ai danni di un eroico ricercatore, Jurij Dmitriev, membro dell’associazione Memorial International (Premio Nobel per la Pace 2022), sbattuto nelle prigioni della Federazione Russa perché ha osato svelare alcuni dei crimini staliniani. Fra i film ucraini passati in sala va invece menzionata l’ultima opera della combattiva (oltre che combattente al fronte) Alisa Kovalenko, che con My ne zgasnemo (We Will Not Fade Away) tratteggia la vita di alcuni adolescenti colpiti dalla guerra nel Donbass, ulteriore trait d’union strategico con la scena festivaliera ucraina in sofferenza (il film veniva contemporaneamente proiettato a Kyïv). L’attenzione per i diritti umani e per la lotta ai totalitarismi è testimoniata però anche da una delle diverse iniziative collaterali organizzate dal festival, ossia la passeggiata offerta agli ospiti e guidata dal direttore Gierat (anche cofondatore del locale Festival della cultura ebraica) attraverso le vie del quartiere ebraico, occasione per ricordare la tragedia dell’Olocausto e la storia anche artistica di quei luoghi, che fra l’altro hanno visto Steven Spielberg girarvi Schindler’s List.
Due fermi immagine da “Symptomy wojny” (Signs of War), documentario di Juri Rechinsky, Pierre Crom, Ucraina-Austria, 2022, fonte.
Queste note finali servono a confermare che, anche grazie al suo festival, Cracovia si conferma come importante centro di scambio e di dialogo, che non limita la propria azione ad aspetti meramente commerciali o produttivi, ma innerva invece in modo consapevole l’attività culturale con riflessioni di accorta diplomazia e con una lucida attenzione al mondo che cambia. Anche per questo non possiamo che consigliare la ricchissima esperienza umana che può essere goduta negli ultimi giorni di maggio nella vecchia capitale.
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