Un film-reportage-diario sulla frontiera tra Polonia e Bielorussia
di Paolo Morawski
Mur s’intitola il film firmato dall’attrice Kasia Smutniak al suo debutto alla regia. Il Muro del titolo è quello costruito dalla Polonia alla frontiera con la Bielorussia.
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Dalla scheda di presentazione del film: “Marzo 2022, da pochi giorni la Russia ha invaso l’Ucraina e l’intera Europa si è mobilitata per dare asilo ai rifugiati. Il Paese che si è distinto per tempestività e generosità è stata la Polonia, lo stesso Paese che ha appena iniziato la costruzione del muro più costoso d’Europa per impedire l’entrata di altri rifugiati. Una striscia di terra che corre lungo tutto il confine bielorusso, chiamata zona rossa, impedisce a chiunque di avvicinarsi e vedere la costruzione del Muro, il protagonista della storia raccontata in questo film. Kasia Smutniak esordisce alla regia con un film che è allo stesso tempo un diario intimo e una denuncia. Il percorso, un incerto e rischioso viaggio nella zona rossa dove l’accesso non è consentito ai media, inizia davanti a un muro e davanti a un altro muro finisce. Grazie all’aiuto di attivisti locali e con una leggerissima attrezzatura tecnica, la regista raggiunge il confine e filma ciò che non si vuole raccontare. Il primo muro respinge i migranti che arrivano da terre lontane attraversando il bosco più antico d’Europa, una frontiera impenetrabile in un mare di alberi. Puszcza Białowieska, così si chiama quel bosco, che, proprio come il mare, è un elemento nuovo per le migliaia di persone che tentano il viaggio. Il secondo, quello di fronte alla finestra di casa dei nonni a Łódź, dove la regista giocava da bambina, è il muro del cimitero ebraico del ghetto di Litzmannstadt. Cercando di riconciliarsi con il proprio passato, Kasia Smutniak torna a casa con una forte consapevolezza: l’accoglienza non deve fare distinzioni, chiunque sia in pericolo va soccorso, un continente che si definisca democratico non innalza muri”.
Oggi il Muro è finito, è lungo 186 km, si può vedere online (qui per esempio). Ma quando Kasia Smutniak ha girato il suo il film-reportage (nel marzo 2022) il Muro era un totem proibito, tutto intorno c’era la “Zona Rossa” presidiata militarmente, vietata a chiunque, soprattutto ai giornalisti, polacchi quanto stranieri (più tardi obbligati nel migliore dei casi a essere accompagnati solo in alcuni punti e strettamente controllati). Avvicinarsi al Muro era praticamente impossibile. Il Muro era costituito allora da barriere di filo spinato, che enormi investimenti pubblici stavano pian piano trasformando in una struttura in ferro e cemento armato, zeppa di sensori e telecamere, sorvolata da droni ed elicotteri, pattugliata giorno e notte da cani, guardie e automezzi ultra moderni della guardia forestale pronti a sparare getti d’acqua o nuvole di gas lacrimogeno. Per fare il Muro occorreva sventrare la foresta, tagliare alberi, spianare strisce di terra, dividere le riserve naturali. Il Muro oggi attraversa il paesaggio come un’immensa cicatrice.
Con tecnica di cinema-della-realtà Mur racconta livelli incrociati di storie. Anzitutto, gli incontri di Kasia Smutniak (e della co-autrice Marella Bombini) con i volontari che aiutano i profughi respinti alla frontiera polacco-bielorussia che vagano nel limbo. I profughi che lanciano appelli o chiedono asilo vanno trovati, nel migliore dei casi raccolti nei boschi e nelle paludi, salvati da fame e freddo, accolti, nutriti, vestiti, curati, legalmente assistiti. Profughi che sono ingannati e usati dalle autorità bielorusse che cinicamente li trasportano lì e li spingono apposta verso la frontiera polacca (come oggetti della guerra ibrida della Bielorussia-Russia contro la Polonia-UE). Profughi clandestini che a un metro da quella che credono essere la salvezza vengono rigettati nei boschi bielorussi dalle autorità polacche. Le quali autorità, invocando la ragion di Stato polacca e la sicurezza nazionale come priorità assoluta, hanno scelto la linea più dura possibile, quella dell’emergenza militare e della costruzione di un nuovo “vallo di Adriano” per prevenire le odierne ondate di profughi assimilati alle incursioni delle tribù dei Pitti contro il limes romano nella prima metà del II secolo D.C. Dal 2021 ne è risultata una complessa e difficile crisi umanitaria, con situazioni drammatiche. Oggi i drammi continuano nonostante i soccorsi portati da volontari e attivisti per i diritti umani, con rischi e pericoli che i soccorritori (alcuni parlano italiano) affrontano con disinteressata generosità ma anche con dubbi, tormenti psicologici, cadute depressive. Sono giovani, spesso hanno famiglia, fanno “ciò che va fatto”, ma ne pagano un prezzo. Usano cellulari e gps, ma oltre i video e gli audio ci sono persone in carne ed ossa, uomini, donne, bambini, anziani provenienti da varie parti dell’Asia e dell’Africa. L’attrice-regista vuole documentare, capire, vedere, incontrare, parlare, toccare con mano, non riesce a rimanere indifferente, sente l’assurdo, si indigna, si commuove, si fa trascinare dalle emozioni, dall’empatia e dalla solidarietà, anche lei si trova a partecipare ai salvataggi. Tra il rincorrersi di poliziotti e posti di blocco, volontari, attivisti, militanti, seguiamo i suoi vari tentativi di riprendere il Muro anti-migranti, la barriera della vergogna, l’oggetto proibito e nemico, il feticcio che le autorità polacche stanno costruendo e potenziando con tutte le possibili tecnologie.
Kasia Smutniak è nata dieci anni prima della caduta della cortina di ferro e del muro di Berlino, è cresciuta in Polonia da genitori polacchi, abita e lavora in Italia da anni, dove si è sposata. Vive in due lingue, due culture, porta in sé due paesi, due “luoghi” (fisici e dell’anima). Ogni giorno scopre l’Italia, ogni giorno (ri)scopre la vicina-lontana Polonia. Decide di tornare in Polonia girando un documentario che non è solo un film documentario, e neppure solamente un reportage. È diario di viaggio, diario intimo e al contempo pubblico, un’opera che nasce da un’urgenza personale, che include impegno civile più che politico e accosta frammenti di una ricerca molto privata con tracce di memorie famigliari. Ci sono musiche, dialoghi, ma anche paesaggi naturali, alberi, prati, bufali, silenzi, albe e tramonti, riprese dall’alto, alcune bellissime. Come ogni diario anche questo non è lineare, ma lo spettatore curioso accetta il patto, si lascia prendere dai ritmi ora veloci ora lenti del montaggio, dal concatenarsi intenso dei giorni che diventano notti, dall’assemblaggio talvolta spiazzante dei diversi livelli narrativi.
Un film su Kasia Smutniak, dunque? Si e no. Kasia Smutniak offre allo spettatore se stessa ma senza troppe compiacenze. Ha scelto di proporsi, talvolta in maniera imperfetta, anche simpaticamente adolescenziale, come guida, strumento, cartina di tornasole, Come “personaggio” da seguire e da cui partire per farsi un’idea di ciò che accade laggiù. “Se stessa” è un piccolo battello per navigare ed esplorare la Polonia di oggi. La esplora – esplorandosi – da polacca, da ex-polacca, da neo-italiana, da tutte queste prospettive contemporaneamente. In Polonia è “a casa”, eppure non è “a casa”, come accade a tutte le persone emigrate che in patria si sentono in un paese un po’ estraneo, se non già ostile. Emigrando e vivendo all’estero si diventa due volte stranieri. Forse è questo lo strato più profondo, sottile, impercettibile del tragitto audiovisivo in compagnia di Kasia Smutniak. Come noi, pubblico in sala, anche l’attrice-regista vede per la prima volta la Polonia in una nuova luce. Le sue indagini, le sue sorprese, i suoi punti interrogativi sono anche nostre/nostri. Come nella vita, così nel film: la questione dei migranti e dei profughi rimane irrisolta. Non c’è catarsi.
Scorrono grandi strade e vicoli di campagna, città metropolitane e province, centri e periferie, scene di vita quotidiana e momenti unici. Ci si confronta con legami e ricordi, con famigliari e parenti, a tavola come alla pompa di benzina. Si annotano tra due inquadrature segni di trasformazioni sociali ed economiche. Un cartello urbano recita: “Aiutiamo gli ucraini”. Presenti e passati s’intersecano, convergono, si biforcano. Che Polonia sarebbe senza i continui agganci alla Storia che ogni polacco porta in sé. La Storia impregna mentalità e cose, ti rincorre ovunque. Vediamo architetture socialiste dei tempi della Repubblica popolare polacca, i tempi del comunismo, della “komuna”: sono lì, eredità del passato oggi modernizzate, ma solo in parte trasformate. C’è un prima e un dopo la guerra, la seconda guerra mondiale. C’era la casa di proprietà in campagna, poi non c’era più, ora ritorna. C’era un quartiere, non c’è più. C’era il ghetto, non c’è più. Seguiamo i percorsi di chi cerca di mantenere viva la memoria degli ebrei prima rastrellati e rinchiusi (altri muri!) nel ghetto di Litzmannstadt a Łódź, poi sterminati. Prepariamo il thè in cucina scambiando quattro chiacchere oppure entriamo in quella che una volta era casa “nostra” e ora è edificio in rovina da cui recuperare due o tre oggetti prima che diventino spettri. Nel silenzio attento della sala cinematografica sei colto da emozioni forti e hai i brividi sulla pelle al confine tra Polonia e Bielorussia, alla cerniera di chiusura tra due mondi, confrontato al destino dei profughi di cui continuamente si percepisce la presenza e s’insegue l’eco. Quante tensioni a quel confine: nei sentimenti di attivisti e volontari, nel fitto dei boschi, davanti alle barriere respingenti, nei tecnicismi delle guardie di frontiera, nella freddezza degli abitanti del luogo che ti scansano, che non vogliono contatti. Poi ti ritrovi alla frontiera tra Polonia e Ucraina e ti pare di essere in un altro pianeta, aperto, caldo, umano, accogliente, nonostante il fatto che la fiumana umana che ti avvolge sia in fuga caoticamente disperata, in fuga dalla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, la guerra che dal febbraio 2022 uccide, distrugge e rende realtà l’orrore. Duri muri e frontiere aperte, rifiuto e accettazione, negazione e disponibilità, mani chiuse e mani tese, le stesse guardie di frontiera che qui hanno l’ordine di non fare passare nessuno e lì di fare entrare tutti. Accade in Polonia. Non solo in Polonia. In tutta Europa.
Mur di Kasia Smutniak è un film particolare, un’opera prima difficile da classificare (e perché mai poi?). Per certi versi il filo conduttore della narrazione è ciò che resta invisibile, che non si riesce a materializzare. È un film su Godot nel Deserto dei tartari, ha commentato il mio vicino. Mi piace perché narra di una Polonia esplorata dai bordi, esaminata sui lati, indagata attraverso testimonianze periferiche, gesti minoritari, dettagli. Mur – ne consiglio la visione a chi ha voglia di farsi accompagnare per un attimo da uno sguardo non usuale, un punto di vista appassionato, del tutto individuale, non appartenente al mainstream televisivo e mediatico, una investigazione che talvolta ti travolge per il fiato corto dell’ansia, per la corsa a capire. Mur – per chi ha voglia di ascoltare una voce femminile, a tratti di grande freschezza, l’insolita voce di una insolita Kasia Smutniak che si propone come persona ancor prima che attrice; e con lei le voci che l’attrice-regista ha raccolto. Che si chiamino Ewa o Mariusz sono voci polacche, di persone che vivono a est dall’Italia, oltre l’Adriatico e le Alpi, ad appena duemila chilometri da Roma (per segnalare un’unità di misura). Quell’est che è da tempo Europa e da vent’anni limes orientale dell’UE.
La terza decade del XXI secolo è un’epoca incredibile di scoperte, novità, cambiamenti, perlustrazioni dei meandri più distanti e lontani nel tempo del nostro universo, ingrandimenti della materia a livelli sub-atomici, prolungamenti della vita media della persona (il traguardo dei 100 anni, un secolo!), continui salti tecnologici e immense sfide collettive. La terza decade del XXI secolo è al contempo un’epoca terribile nella quale la guerra è tornata in Europa e si riaccende in Medio Oriente, per tacere di tutti gli altri teatri di crudeltà e orrore nel mondo, in Africa, Asia o altrove. Non si può e non si deve rimanere indifferenti. Il messaggio del diario-filmato di Mur è proprio questo: viviamo in un mondo con troppi muri, ogni muro è un fallimento, non si può fallire fino a questo punto, servono altre prospettive. Urge dialogare con l’indifferenza, prima di tutto con la propria indifferenza. Urge confrontarsi in maniera altrimenti propositiva con la contemporaneità. Va bene la comprensione emotiva, il ripiegamento riflessivo, la meditazione personale, ma alla fine l’essenziale va condiviso, se si vuole arrivare a fare massa critica per stimolare qualche cambiamento.
Usciti dalla sala dopo l’applauso finale, mentre la città ti riavvolge e ti riporta in Italia, capita di pensare che il muro è anzitutto un orizzonte interiore.
Il Muro tra Polonia e Bielorussia è stato costruito per impedire il passaggio di immigrati clandestini (siriani, iracheni, curdi ecc.). In altre parole, un deterrente per respingere i migranti in cerca di asilo. Il Muro è uno dei risultati più significativi (sic!) del governo di Diritto e Giustizia (PIS), appena uscito sconfitto in Polonia dalle urne. Per capire il contesto nel quale nacque questo Muro vale la pena di rileggere la spiegazione delle autorità polacche: “I crescenti tentativi dei migranti di attraversare illegalmente il confine dell’Unione europea sono il risultato di una crisi creata dal regime bielorusso. Dal giugno 2021, il regime bielorusso sta conducendo una guerra ibrida contro l’Unione europea. L’immigrazione clandestina, sostenuta dai servizi bielorussi, mira a destabilizzare la situazione politica e a minacciare la sicurezza della Polonia e dell’Unione Europea. I massicci tentativi di violazione dell’integrità territoriale e le provocazioni dei servizi bielorussi servono ad approfondire la crisi migratoria creata dal regime bielorusso. Sfruttare a questo scopo la drammatica situazione delle persone che vivono, tra l’altro, in Medio Oriente fa parte del crudele e cinico gioco politico del dittatore bielorusso. Organizzati dal regime bielorusso, i trasporti di persone provenienti da queste aree arrivano costantemente a Minsk, da dove vengono trasportati verso i confini della Polonia e dell’Unione Europea (…) È una questione di sicurezza dell’intera comunità europea e dei valori che ci uniscono. La nostra posizione coerente contro le azioni del regime bielorusso è (…) una posizione ferma contro l’aggressione e il vergognoso uso di persone sofferenti come scudi umani. Di fronte a questa grave minaccia, tutti gli organi dello Stato sono impegnati a garantire la sicurezza e a proteggere la Polonia e i polacchi. Si tratta di misure preventive intensive, di una maggiore presenza di guardie di frontiera, dell’esercito e della polizia e della costruzione di una barriera permanente”. Dall’inizio del 2023, cittadini di 52 Paesi “hanno tentato di attraversare il confine polacco-bielorusso contro la legge”.
Materiali in Rete
- Sui migranti respinti con cannoni ad acqua (16-11-2021) vedi
- Sugli scontri alla frontiera polacco-bielorussa (16-11-2021) vedi
- Sui pattugliamenti notturni (20-11-2021) vedi
- Sulle difficoltà dei giornalisti (10-12-2021) vedi
- Su cosa è diventato uno dei passaggi dei migranti (12-02-2022) vedi
- Sui passaggi di migranti clandestini (06-05-2022) vedi
- Sui primi 100 km di muro (02-06-2022) vedi
- Sulla struttura del Muro (30-06-2022) vedi
- Sul punto di vista dei volontari di Grupa Granica (02-08-2022) vedi
- Sulla crisi polacco-bielorussa e quanto accade alla frontiera polacco-ucraina (23-02-2023) vedi
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