Propaganda, architetture immaginate e città reale nel film “Novaja Moskva” di Aleksandr Medvedkin
di Rukya Mandrile
Immagine di copertina, fonte.
Novaja Moskva, opera del regista Aleksandr Medvedkin (1900-1989) datata 1938, appare come il classico kolossal ideologico di epoca staliniana: presenta infatti come tematica la ricostruzione della capitale sovietica secondo i canoni del grande stile sovietico. La si può immaginare come un’esaltazione della grandeur staliniana apprezzata dal pubblico in sala e dalla critica, lodata da Stalin in persona e proposta come modello per la rappresentazione e promozione di Mosca in quanto cuore pulsante delle civiltà sovietica. Invece il lungometraggio non venne mai mostrato al pubblico. Il dittatore, per motivi ancora sconosciuti, lo ritenne inadatto al rigore ideologico delle arti del realismo socialista e ne proibì la distribuzione nelle sale.
Prima di addentrarsi nell’analisi della pellicola per scoprirne caratteri canonici e possibili problematicità, è necessario confrontarsi con la figura di Medvedkin come regista e il suo rapporto con i canoni estetici e ideologici dell’arte sovietica. L’autore inaugurò la propria attività in ambito cinematografico alla scuola di Nikolaj Ochlopkov e in seguito si dedicò alla creazione di cortometraggi che mescolavano politica, satira e cronaca. Da subito percepì affinità con i linguaggi delle avanguardie, puntando a un coinvolgimento dello spettatore basato sullo straniamento della realtà. Le prime sperimentazioni lasciarono spazio nel 1930 all’indagine sulla realtà sovietica: venne inviato in Kazakistan per documentare i risultati della collettivizzazione forzata unendosi al gruppo del cine-treno Sojuzkinochroniki il cui slogan era “Oggi filmiamo, domani mostriamo”.
La documentazione della realtà bucolica era vista dal cineasta attraverso la lente ideologica ed era quindi ritagliata ad hoc per mostrare l’avanzata tecnologica nelle campagne, l’abbondanza del raccolto e il fervore dei contadini. Tali atmosfere verranno poi trasfigurate nel controverso film Sčast’e (Felicità, 1934) in cui i contadini sono ritratti mentre trainano gli aratri al posto del bestiame. In quella pellicola l’autore riprende processi di straniamento della realtà che si legano alle note satiriche e comiche delle scene ambientate nei sovchozy.
Aleksandr Medvedkin (1900-1989), foto.
Il film Novaja Moskva presenta invece una trama che appare essere perfettamente in linea con i plot caratteristici dell’epoca: l’ingegnere Alëša viene trasferito dalle campagne nella capitale per progettarne la ricostruzione attraverso la realizzazione di un diorama. Durante il viaggio in treno verso Mosca intona una canzone che esalta la magnificenza dell’architettura cittadina, tematica che verrà ripresa attraverso una topografia più dettagliata dal video della famosa canzone Lučšij gorod zemli (La migliore città sulla terra, 1964). A viaggiare con lui in Novaja Moskva è Zoja, moscovita di cui il giovane si innamora, ma già corteggiata dal pittore Fedja: si innescano quindi le dinamiche del triangolo amoroso che dominano la pellicola, fino alla conclusione in cui Fedja incontrerà invece la contadina Ol’ja alla quale dedicherà le sue attenzioni. Tali vicende, forse poco gradite a Stalin anche per il rimando implicito alle ambiguità già presenti nel suo film del 1927 Ulica tret’ja meščanskaja (Letto e divano), costituiscono il primo piano ideale per la raffigurazione del fondale: la capitale come enorme cantiere e la sua ricostruzione, in parallelo con la progettazione del diorama a cui lavora il protagonista.
La città del futuro, che echeggia la Metropolis di Fritz Lang, è razionale, maestosa e irreale. Irreale nel vero senso della parola: parte degli edifici che la compongono non sono mai stati eretti. Primo tra tutti il Palazzo dei Soviet, mito architettonico sormontato da un’enorme statua di Lenin, progettato per sostituire la cattedrale di Cristo Salvatore che venne abbattuta nel 1931. L’opera di sostituzione non fu mai portata a termine e al posto della cattedrale, trovò spazio un’enorme piscina fino alla ricostruzione dell’edificio religioso nel 1988. Nonostante ciò, la costruzione simbolo della rivoluzione si afferma come reale e fa la sua comparsa anche in altre pellicole come Svetlyj put’ (Il cammino luminoso, 1940) di Grigorij Aleksandrov. Si manifesta proprio in questa contraddizione ciò che lo studioso Gian Piero Piretto definisce “futuro come eterno presente”: il futuro sovietico esiste già nella realtà staliniana, i cittadini lo vivono, rendendosi spettatori e complici della mitologia stessa del potere. Al Palazzo dei Soviet sono così affiancate rappresentazioni di luoghi reali della capitale, che effettivamente vennero ricostruiti durante quel periodo come Prospekt akademij nauk (oggi Leninskij Prospekt) o Piazza Majakovskij. Il mito viene incastonato nel paesaggio che i moscoviti potevano ammirare giornalmente.
Il Palazzo dei Soviet in una delle locandine del film.
Anche in Novaja Moskva la vena satirica di Medvedkin non viene a mancare e si manifesta in una delle scene finali. Nel momento in cui il diorama viene presentato al pubblico, a causa di un malfunzionamento del meccanismo, la costruzione della capitale viene mostrata come un processo inverso in cui i grattacieli scompaiono per lasciare spazio alle cupole a cipolla e alle costruzioni medievali in legno. L’arretratezza della Mosca medievale è contrassegnata proprio dal legno come materiale deperibile e dal trionfo della natura sull’opera umana. Non a caso uno dei film più popolari dell’epoca era Volga-volga (1938), diretto da Grigorij Aleksandrov, dedicato alla costruzione del canale Mosca-Volga, che connetteva la Moscova all’altro grande fiume della Russia europea, piegando l’idrografia alla razionalità sovietica. Il processo di distruzione della Mosca staliniana viene interrotto grazie all’intervento del protagonista che ripristina il corretto scorrere degli eventi (e della storia in ottica ideologica), accompagnato dalla retorica staliniana nel discorso di Zoja. Lo stesso slancio verso il futuro è ripreso da una delle scene iniziali del film, nella quale uno dei contadini decide di farsi tagliare la barba e di indossare nuovi vestiti – (il richiamo è al taglio delle barbe come rito di passaggio dei nobili russi che dovettero affrontare la rivoluzione culturale di Pietro il Grande, iniziatore del processo di occidentalizzazione della Russia che culminò nella costruzione di San Pietroburgo). Anche la campagna acquisisce tratti ideologici e si lega alla ricostruzione della capitale. Il protagonista Alëša viene richiamato nel kolchoz dove lo abbiamo incontrato all’inizio del film per poter ultimare le opere di costruzione ed è costretto ad abbandonare Zoja nella capitale. La ragazza decide di raggiungerlo, prima però va a comprarsi dei comodi stivali per affrontare i terreni paludosi che la attendono. Quando arriva al villaggio si trova invece davanti all’architettura solida e razionale già protagonista del diorama, e si chiede: “Dov’è la palude?”. Scalzati gli stivali si ricongiunge con l’amato e i due si abbracciano sotto lo sguardo attento del padre della patria Stalin che li osserva da un ritratto appeso al muro. Il film, dunque, si conclude con il trionfo della tecnica sulla natura e del futuro-presente sul passato. La presenza vigile del dittatore rinforza il contesto ideologico in cui si muovono i protagonisti.
Che cosa, nella rappresentazione canonicamente ideologizzata della città e dei personaggi, può aver turbato Stalin? Potrebbe non aver apprezzato lo scherzetto del meccanismo che gioca col fluire storico del tempo facendo risorgere la vecchia Mosca? Oppure non ha gradito la satira riguardante il trasferimento di interi edifici da un quartiere all’altro della città, trasferimento che impedisce al pittore di completare i suoi panorami? O forse c’è un altro elemento che non è passato inosservato agli occhi del dittatore: la città nuova è maestosa e gli esseri umani in essa sono come figurine in un diorama, ciò nonostante i protagonisti della pellicola non rientrano a pieno titolo negli stereotipi dell’epoca. Essi incarnano sì le silhouette dell’ingegnere, dell’artista e della nuova donna sovietica, ma ridono e soprattutto amano con una freschezza e spontaneità lontane dagli atteggiamenti impettiti e misurati dell’attrice-cantante Ljubov’ Orlova nel film Vesna (Primavera, 1947) del regista Grigorij Vasil’evič Aleksandrov. Alëša e Zoja sono costantemente sotto tiro da parte della vena ironica e buffonesca di Aleksandr Medvedkin, che allunga lo sketch in cui i due rincorrono il maialino fino a renderlo una scena a sé stante e ricorrente, ripresentandola nella combinazione Zoja-Fedja.
Da sinistra: Alëša, Ol’ja, il maialino e Zoja, fonte.
Ancora più emblematica dell’autenticità degli uomini nuovi è la scena in cui Fedja e Olja si trovano sotto la pioggia in costume da bagno e ridono, senza curarsi di nulla, fungendo da modello virtuale ripreso poi nella passeggiata sotto il temporale estivo del film del 1963 Šagaju po Moskve (A spasso per Mosca) diretto da Georgij Danelija. In quest’ultima pellicola, divenuta simbolo del disgelo kruševiano, la colonna sonora recita: “ma è solo un temporale estivo, un normale temporale estivo”.
Fedja e Ol’ja poco prima che scoppi il temporale, fonte.
I rapporti umani per Medvedkin sono certamente inseriti nelle convenzioni ideologiche dell’epoca, ma si rivelano nella loro semplicità sullo sfondo della nuova capitale sovietica. A dominare, insieme alla spontaneità, è proprio il ridere a-ideologico, lo stesso che pervade la festa in costume alla quale partecipano i protagonisti e che diventa spunto per il gioco degli equivoci che vede sia Alëša che Fedja vestire i panni di un orso, entrambi alla ricerca di Zoja. Medvedkin inserisce nella sua pellicola evidenti richiami alla joie di vivre staliniana, cristallizzata nel motto “Vivere è diventato più bello, vivere è diventato più gioioso”, ma ne coglie l’essenza umana all’interno della cornice ideologica, rendendo i suoi personaggi vivi, realistici e più vicini allo spettatore (ma lontani dallo sguardo ideologico staliniano). La stessa capitale, da insieme di linee e angoli che fanno parte di un progetto, si erge nel suo splendore, ma rivela un’energia che va ben oltre la plasticità delle immagini proposte dal diorama: diventa una città viva, non solo perché è cuore pulsante dello Stato, ma perché popolata da uomini e donne che pur credendo nel futuro radioso vivono il proprio presente. La città di Medvedkin è visione, immagine, simbolo di vita, come canta Alëša sul treno in viaggio verso la capitale:
В каком бы я ни был далёком краю,
Какой бы не шёл стороной,
Я вижу родную столицу мою
И слышу я голос живой.
[In qualunque terra sperduta mi trovi,
qualunque direzione io prenda
vedo la mia cara capitale,
e sento una voce piena di vita]
Alëša canta accompagnato dalla fisarmonica.
Per Medvedkin la voce di Mosca non è più quella compatta dei suoi primi film più ideologici come Cirk (Il circo, 1928), ma si scompone nei vari protagonisti, ognuno portatore di una diversa visione della realtà (sempre e comunque ortodossa): dal rigore ideologico di Alëša, allo spirito artistico e sognatore di Fedja, passando per la figura della nonna del protagonista, sua compagna di avventure nella capitale, che offre uno sguardo ironico sull’incontro tra passato e futuro, tra campagna e città. Questa polifonia si manifesta anche attraverso i sentimenti e le loro esternazioni. I giovani ridono, piangono, si entusiasmano e sognano. La nuova Mosca forse è nuova non tanto perché moderna, ideologicamente “corretta” e futuristica, ma perché nel suo futuro intravede il frammentarsi della sua voce e il fluire della vita in forme spontanee. La voce viva della capitale acquisisce alla fine del film un valore a-ideologico. Un tratto troppo innovativo per le maglie del regime staliniano, ma vicino a un “socialismo cinematografico dal volto umano” proprio dell’epoca post-staliniana.
Sono le tematiche e l’estetica plasmati da un approccio ideologico alla realtà e all’arte che rendono questo film un fenomeno chiave per comprendere la dimensione intima della vita sovietica, divisa tra il pubblico e il privato, tra i compiti del singolo come parte della società e le relazioni interpersonali, a tratti autonome da tali dinamiche ideologiche. La pellicola si pone come punto di partenza per comprendere meglio la doppia vita sovietica: da qua si può approfondire il filone ideologico oppure spostarsi verso film in cui ideologia e componente umana convivono come ad esempio in Vesna na zarečnoj ulice (Primavera in via zarečnaja, 1956) di Feliks Mironer fino a sfociare nella spontaneità delle pellicole del disgelo. Qualunque direzione si prenda, a emergere è il cinema che può fornire spunti interessanti riguardo le dinamiche di rappresentazione del reale e sugli scorci di esso che vengono proposti al pubblico. In quest’ottica la visione di film di stampo ideologico acquisisce valore aggiunto in quanto risultato di un ritaglio, di una rielaborazione della realtà, spingendo lo spettatore a riconoscere meccanismi simili nella propria contemporaneità, sia nel mondo cinematografico, che in generale nei fenomeni culturali dell’era post-sovietica.
Uno scorcio di Ulica Gor’kogo (oggi Tverskaja Ulica), ampliata nel 1935, collega la piazza Rossa a piazza Majakovskij, foto.