Dalla guerra alla pace, un lungo percorso
di Paolo Morawski
Guerra = crimine.
Guerra – parola bandita dai media russi.
Guerra – parola pesante come un macigno. Più è vicina, più ci sei dentro, maggiore ne è il peso.
Guerra parola breve – ma una volta che entra nella tua vita subito si ramifica.
C’è un prima della guerra (purtroppo a quel punto sbiadito nel ricordo).
C’è un “nel mentre avviene” (ci sei dentro con i suoi orrori, la sua disumanità, i suoi calcinacci, le sue sporcizie, i feriti, i cadaveri).
E c’è un dopo la guerra che si spera con tutto il cuore di vedere (se si sopravvive) e che si vorrebbe arrivasse al più presto (desiderio, forza della speranza).
Così ha evocato la guerra con estrema semplicità, anzi umanità, in collegamento via YouTube da Kiev bombardata, Oxana Pachlovska, professore associato di lingua e letteratura ucraina presso il Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”. Dipartimento che lo scorso 2 marzo – settimo giorno di guerra – ha organizzato l’evento “Sapienza per la pace” in un’Aula magna del Rettorato gremita, commossa, pensosa, solidale.
“Resistere è talvolta condizione per esistere”, ha sottolineato lo storico Andrea Graziosi nel rendere ammirata lode alla resistenza degli ucraini invasi dagli eserciti russi. Molti interventi hanno evocato la traiettoria storica dell’Ucraina, territorio già troppe volte nel Novecento terra di sangue: attraverso la Prima e la Seconda guerra mondiale; con le repressioni subite dalle popolazioni ucraine durante la Rivoluzione russa; e poi negli anni 1930 (l’Holodomor, lo “sterminio per fame” voluto da Stalin uccide oltre 3 milioni di ucraini); e ancora nel secondo dopoguerra (per le accuse di collaborazionismo con i nazisti estese a larghi strati della popolazione). Il polonista Luigi Marinelli ha ricordato la pluralità storica, etnica, culturale, linguistica dell’Ucraina, il suo essere in ogni luogo del paese “polifonica”: confine-intreccio-mescolanza-ibridazione tra Russia, Polonia, Bielorussia, Lituania, Romania, con innesti fertili tanto ebraici quanto moldavi, tedeschi o greci. Negli anni 1970-1980 a soffrire nell’ex blocco satellite all’URSS era il dissenso e il potere cercava di schiacciare le società civili. Oggi patisce le pene dell’inferno ogni forma anche di semplice disaccordo con Putin, sia in Russia sia nello spazio dell’ex URSS. Sono tanti i russi che si oppongono alla guerra e a Putin (e per questo rischiano l’arresto immediato); e sono tanti i bielorussi che da anni, rischiando, resistono a Lukašėnka. È importante sottolinearlo specie in questo momento, quando la incomprensibile e mai giustificabile pratica della sopraffazione e del dominio con la forza delle armi batte bandiera russa e la Bielorussia nuclearizzata è complice dell’invasione dell’Ucraina fungendo da base di appoggio ai militari russi che conducono una guerra che si accanisce anche contro i civili ucraini.
Come è stato detto e testimoniato c’è, per fortuna, un’altra Russia, oltre quella che appoggia Putin. C’è, per fortuna, un’altra Bielorussia, oltre quella che appoggia Lukašėnka. C’è, per fortuna, un’altra Ucraina, oltre quella drogata e neonazista denunciata dalla propaganda russa. Ci sono, per fortuna, altre Polonie e Ungherie, oltre quelle che si fanno beffe dei valori e delle norme UE, dello Stato di diritto; e che fino a qualche giorno fa erigevano fili spinati contro i profughi afghani e siriani (è ancora così purtroppo). Ma il Male incombe e l’incendio bellico è ora dentro lo spazio europeo. Perché l’Ucraina è parte dell’Europa, l’Ucraina appartiene all’Europa dell’immaginario e dello spirito, della cultura, della poesia, della letteratura, dell’arte – hanno messo in rilievo tutti gli intervenuti. Ecco, allora, la conclusione dell’incontro: la guerra in casa impone a tutti gli europei come minimo una netta scelta di campo morale tra chi aggredisce e chi è aggredito. Ma soprattutto ci impone di cambiare, di ripensare tutto.
Sarà un ripensare difficile, faticoso, doloroso – ma quello che sta accadendo in Ucraina, è mia fortissima sensazione, non è un dramma qualunque. È la fine del XX secolo, è la fine dell’ordine nato nel 1945, anzi nel 1918, è l’ennesimo inizio del XXI secolo. Ora siamo dentro a una cesura storica, una cesura “lunga: contorta, complessa, che si dipana su scala planetaria. Ecco perché è e sarà difficile capire ciò che accade e ci aspetta.
Di incontri come quello organizzato dalla “Sapienza” se ne contano, per fortuna, a centinaia in Italia e in Europa. Ma il singolo episodio è utile a sottolineare il dato più prezioso: ci sono luoghi – come le università, appunto – in cui persone di svariate lingue e culture si frequentano, parlano, discutono, si segnalano a vicenda autori e letture comuni, formano studenti e future classi dirigenti. Non è banale e può accadere “normalmente”, senza alcuna vacua retorica o tronfia vanità, senza spari, bombe o gole recise, senza urla di dolore e pianti di bambini. Si dirà che le università sono dei microcosmi a parte. Al contrario. Nelle università – come in Ucraina, come in Russia, come l’Europa – c’è grande pluralità e mescolanza. Accade in cucina, nei matrimoni misti, nelle camere da letto. Nelle pagine dei libri letti. In ciascuna storia di famiglia sempre c’è un avo o un parente che ha cambiato città, regione, paese pur rimanendo in Europa. Ma è altrettanto vero il contrario. In Europa si può continuamente cambiare nazionalità, lingua, identità, sentimenti di appartenenza senza mai spostarsi da casa propria. Lo scrisse con garbata ironia Leopold Unger anni fa a proposito di Lemberg-Lemberik-Lwów-Lvov-L’viv, da lui descritta come “città di tre nazioni: polacchi, ucraini ed ebrei (non contando armeni, karaimi, tartari, ecc.), città di tre aspirazioni/ambizioni, tre filosofie, lingue, religioni e di un numero infinito di conflitti che s’intersecano […] I miei genitori sono nati, si sono sposati e hanno messo su famiglia in Austria, hanno costruito la loro esistenza nella Polonia indipendente, sono morti nella Germania nazista, sono stati sepolti in una tomba sconosciuta nell’Ucraina sovietica. Tutto ciò senza mai cambiare indirizzo in via Gródecka 99 a Lwów” (Dall’allora blog di Leopold Unger, Mój berliński kadysz, 19/09/2007). Vale per Leopoli, vale per l’intera Ucraina, vale per l’Italia, vale per la vastità europea: siamo tutti ibridi, seppur non sempre lo sappiamo, non sempre ci piace ammetterlo, talvolta apposta lo dimentichiamo.
Se c’è un paradigma fondante dell’Europa di oggi, ebbene questo paradigma è la traduzione. Traduzione: pacifico corpo a corpo con l’alterità, dialogo tra la mia e la tua lingua, empatia tra la mia e la tua testa, scambio tra la mia e la tua cultura. Se c’è un paradigma che l’Europa può pacificamente esportare in tutto il mondo per venire incontro a una necessità sentita da miliardi di persone, ebbene questo paradigma è la sua capacità traduttiva.
Come italiani siamo soliti guardate all’Ucraina come a una lontananza: una periferia dell’Europa. Taluni peraltro considerano l’Ucraina uno spazio storico-geografico del tutto extra-europeo, pur godendo del fatto che tanti ucraini e ucraine (l’80%) vengono a servizio da noi, a fare lavori umili ancorché utilissimi. Con l’attacco all’Ucraina sono i nostri sguardi di osservatori italiani a rivelarsi ad un tratto periferici. Il centro dell’Europa, in questo momento, ruota intorno a Kiev, Charkiv, Mariupol’, Cherson, Odessa e L’viv. Ora l’essere periferici o più vicini al centro di questa guerra in parte determina la direzione e la sostanza dei nostri discorsi. Oltre la metà degli ucraini che hanno già lasciato il Paese sono entrati in Polonia (oltre 500 mila i profughi in gran parte donne e bambini) e in Ungheria (140 mila) e Moldavia (100 mila), una realtà enorme da aiutare e sistemare subito, anche perché le previsioni – sincere o interessate – paventano da 4 a 10 milioni di fuggiaschi. In Italia i residenti ucraini sono circa 240 mila e si teme che attraggano altri 100-200 mila profughi ucraini, spauracchio e fonte di preoccupazione, a prescindere dalle tante solidarietà. Ma è soprattutto sul piano delle chiavi di lettura che le differenze sono tangibili in funzione della distanza dall’epicentro. In uno schema molto grezzo, nei polacchi trova piena conferma lo stereotipo del russo imperialista in una linea di continuità da Ivan il Grande a Putin. Gli italiani prediligono la tesi della follia di Putin, dittatore pazzo e solitario, uomo solo al comando, posseduto da instabilità esoteriche. I polacchi non hanno dubbi, sensi di colpa, niente di cui rimproverarsi. Gli italiani sono pieni di distinguo, più sensibili alle colpe, agli errori, alle provocazioni dell’Occidente, Stati Uniti e ucraini in testa. I polacchi vogliono fermare Putin a tutti i costi, intanto si dedicano ai profughi. Gli italiani l’imperativo è salvare la pace a tutti i costi, ma nessuno sa come. I polacchi discutono poco in TV e si sono subito rimboccati le maniche. In Italia si discute molto in TV e si vorrebbe agire senza pagare alcun prezzo. Gli italiani riscoprono l’UE (nuovamente dopo il Covid e il PNRR), i polacchi riscoprono l’UE (mentre ancora è in corso il braccio di ferro UE-Polonia sullo Stato di diritto e sui migranti non ucraini). Ciascun paese “riscopre” l’UE e invoca l’Europa a modo suo. Lo stesso dicasi per la Nato?
Annotare in maniera epidermica e certamente discutibile alcune differenze – da aggiornare e da estendere alla comparazione con francesi, tedeschi, inglesi o spagnoli, per citare solo alcune pubbliche opinioni – non significa giudicare, dare voti in pagella, puntare il dito su chi è “bravo” o “cattivo”. Il raffronto vuole piuttosto scuoterci, farci uscire dalle nostre zone confort, avviare una necessaria riflessione – tra italiani, tra europei – su cosa significhi agli effetti pratici essere centrali o periferici rispetto a questa guerra combattuta in Ucraina, che nessun europeo vuole, nemmeno quegli europei che hanno subito e talvolta ancora continuano a subire il fascino, se non della personalità, comunque delle argomentazioni di Putin, con annessi buoni affari con la Russia. Nessuno la desidera, eppure siamo già dentro una guerra che la Russia non solo fa ma è determinata a portare a termine. Che si fa?
La tesi che vorrei sostenere è che abbiamo bisogno di un nuovo approccio d’insieme che ci consenta una visione storica, prospettica (nel medio-lungo periodo, indietro e in avanti, nel tempo e nello spazio). Oltre la geopolitica (analisi degli interessi contrapposti e dei rapporti di forza nel breve-medio termine). Una visione d’insieme che faciliti la lettura di quanto accade nella parte orientale del nostro mondo europeo. Cercare di capire per dare un senso e una (inedita) prospettiva all’epoca nella quale viviamo (la terza decade del XXI secolo). E per capire, abbozzare lo scafo di un modellino di riferimento da buttare a mare – nel mare tumultuoso delle notizie e dei fatti, nell’accavallarsi degli eventi dell’attuale congiuntura – per vedere se galleggia, se tiene, se si tratta di un pensare utile.
Utile soprattutto a farci avanzare nell’obiettivo della pace, punto di partenza e di arrivo.